[highlight]Una guerra in cui gli Stati Uniti perdono soldi e guadagnano potere[/highlight]
Il concetto di guerra al terrorismo fu lanciato dal Presidente George W. Bush, in un discorso del 20 Settembre 2001, pochi giorni dopo l’attacco terroristico alle Twin Towers:
[quote]La nostra guerra al terrore inizia con Al Qaeda, ma non finisce lì. Non finirà fino a quando ogni gruppo terroristico di portata globale sarà trovato, fermato e sconfitto[/quote]
L’America ha mantenuto la promessa e, ancora oggi, la nozione di terrore rappresenta il correlato psicologico di un Paese che combatte un nemico, tuttavia, ancora indefinito, o, quanto meno, identificato ogni volta nel gruppo terroristico di turno. Così, la lotta al terrorismo ha, ormai, assunto i connotati di una guerra perpetua al terrore,una guerra atipica, la cui fine non è certamente prossima e le cui ricadute di carattere economico risultano davvero imponenti. È su queste ultime che occorre focalizzarsi, evidenziando dati fin troppo occultati, come del resto prevede una guerra in cui contano soltanto le immagini riportate dai mass media, quelle che parlano da sole, e in cui non trapelano, invece, le informazioni di governo circondate da assoluta segretezza.
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La guerra al terrore è uno spreco di denaro
Il Congressional Risearch Service (CRS) ha raccolto i dati riportati nel budget federale degli Stati Uniti, documento che contiene i piani relativi alle uscite e alle entrate per l’esercizio fiscale di tutti i dipartimenti governativi. Dal materiale a disposizione, è emerso che, dei circa 1.600 miliardi di dollari affidati ai dipartimenti governativi dal 2001, la stragrande maggioranza, ben 1.562 miliardi di dollari, sono stati assegnati al Dipartimento della Difesa. Inoltre, con l’aggiunta della somma prevista per il 2015, il costo totale delle operazioni antiterroristiche salirebbe a 1.700 miliardi di dollari.
Questi dati sono riportati anche in un grafico pubblicato dal sito statista.com.
Semplificando, la spesa più ingente effettuata dagli Stati Uniti va a finanziare l’apparato bellico che, in 13 anni di guerra al terrorismo, a partire cioè dall’11 settembre 2001, ha inciso, come le somme sopra riportare lasciano intendere, fortemente sul debito pubblico statunitense.
Eppure, questi dati risultano ancora parziali, in quanto circoscritti all’ambito del budget federale. Prendendo in considerazione spese di altro tipo, il costo della guerra rischia di aumentare a dismisura. A tal riguardo, basta pensare ai 20 miliardi di dollari spediti direttamente in Iraq senza alcuna supervisione, 11 dei quali sono scomparsi, o ai milioni pagati a Dennis Montgomery, un designer di software che era riuscito a far credere alla Cia di essere il solo in grado di decifrare i piani di Al Qaeda, per i futuri attacchi terroristici, trasmessi in codice, a suo avviso, nelle trasmissioni di Al Jazeera.
A guadagnarci sono anche le aziende sulle quali il governo americano fa affidamento, le stesse che nel corso degli anni, hanno ottenuto contratti miliardari per le più controverse operazioni antiterrorismo. La General Atomics, ad esempio, leader di fama mondiale nello sviluppo di sistemi ad alta tecnologia per il ciclo del combustibile nucleare di sistemi elettromagnetici, ha ricevuto contratti del governo Usa per 1,8 milioni di dollari.
I più ricchi hanno capito che il modo attualmente più semplice per fare soldi è riuscire a far parte dell’apparato di sicurezza nazionale di Washington, mentre ci pensano i più poveri a combattere e morire.
Se l’America fosse improvvisamente in pace, opportunità di questo tipo sparirebbero immediatamente per l’élite statunitense. Intanto, però, le casse dello stato si depauperano e la spesa militare complessiva dal 2001 a oggi sale fino a circa 6 miliardi di dollari.
Perché per gli Usa ne vale la pena
Quelle menzionate sono cifre che parlano da sole, ma che fanno parlare anche chi si chiede legittimamente perché per gli americani ne valga la pena, perché, insomma, addirittura convenga spendere tanti soldi destinati al settore bellico.
La motivazione principale risiede nella natura imperialistica, propria dell’America, quella che si è manifestata con maggiore intensità dalla fine della guerra fredda, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti hanno, da subito, creduto, essendo rimasti l’unica superpotenza in campo, di poter realizzare il passaggio da un bipolarismo a un unilateralismo globale egemonizzato da loro stessi.
Da questo punto di vista, l’evento catastrofico del 2001 si configura come la miccia grazie alla quale poter legittimare la presa del potere a livello mondiale. La retorica della “guerra al terrore” ha giustificato uno stato di emergenza imposto dall’America all’ordine globale.
Già prima dell’11 settembre la potenza esportatrice di pace e libertà era entrata in affari internazionali, si era insidiata in ogni rivolta possibile. Stavolta, però, l’invasione e l’occupazione militare di Afghanistan prima e Iraq poi risultavano rafforzate nella loro portata ideologica, in quanto reazioni a un attacco diretto, in quanto guerre “giuste” finalizzate al compimento di un’opera civilizzatrice consentita dalla superiorità morale di uno Stato che era stato colpito nel suo cuore pulsante, che era stato sfidato in Patria.
L’11 settembre appare come il movente offerto agli Usa per imporre il potere, la giustificazione per la manipolazione degli equilibri mondiali.
Ecco perché evitare di limitare temporalmente questa guerra è nell’interesse degli Stati Uniti, ecco perché il nemico resta, forse, volontariamente indefinito ed ecco che la frase iniziale di Bush appare più comprensibile che mai. La vocazione per libertà e democrazia risulta offuscata piuttosto da una spiccata volontà di potenza. Questa contraddizione può essere messa in risalto alla luce del fatto che i principi democratici attuati in Patria si scontrano, e non poco, con quelli avulsi da ogni agire democratico, applicati in campo nemico: torture, condanne senza processi e migliaia di vittime civili sono i mezzi dei difensori della libertà.
Proprio in questo e in altri aspetti si delineano le debolezze insite nel progetto imperialista americano. L’opinione pubblica, a lungo andare, ha cominciato a dubitare, a vacillare nel suo cieco consenso al garante dell’ordine mondiale. La questione dei droni contribuisce a scalfire l’immagine degli Stati Uniti come salvatori della mondo: le nuove bombe volanti consentono risparmio di vite, sì, ma di quelle americane, a discapito di quelle raddoppiate dei civili bombardati. Inoltre, a dimostrazione del fatto che la potenza militare unilaterale non è in grado di creare e garantire un ordine globale, l’occupazione americana in Iraq non ha fatto altro che incrementare i disordini, ha regolato le dinamiche interne di un Paese, scatenando una guerra sociale sfociata nel predominio sciita, dopo un secolo di dominazione sunnita.
Questo passaggio ha determinato l’emarginazione dei sunniti, i cui esponenti estremisti, ormai, li conosciamo bene: l’ISIS e le immagini delle sue atroci modalità d’azione sono sotto gli occhi di tutti. Chi, però, ha contribuito in partenza a fomentare l’odio?
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Più che esportare pace, l’America sembra aver introdotto guerra, una guerra che, però, consente il prolungamento del dominio, in un continuo circolo vizioso. Eppure, al di là groviglio difficile da districare, in cui è complicato distinguere i buoni dai cattivi, la cosa certa è che gli Stati Uniti perdono di credibilità, generando un rovesciamento della propria immagine: da difensori della libertà e della democrazia a responsabili della violazione dei diritti umani e delle più elementari regole del diritto internazionale, attraverso l’uso sistematico del terrore e della tortura come strumento militare e politico.
Morale della favola: lo spreco di denaro ha garantito sogni di potere agli Stati Uniti impegnati in una guerra che resta pur sempre intrisa di astrazione, di un’astrazione che fa comodo.