[highlight]Simona Marino, Delegata del Sindaco di Napoli per le Pari Opportunità, ci racconta qual è e quale dovrebbe essere l’immagine della donna[/highlight]
Trattare il tema della parità tra uomo e donna, in tutte le sue mille sfaccettature e senza ricadere in luoghi comuni, è il primo passo per risvegliare nell’universo femminile quella rabbia e quella passione politica che sembra essersi affievolita, mentre non si è affievolita affatto quella cultura patriarcale che, silenziosamente e attraverso forme più velate, non denunciate o difficilmente riconoscibili di discriminazione, esercita ancora forme di assoggettamento su donne talvolta inconsapevoli. Ne abbiamo parlato con Simona Marino, Delegata del Sindaco di Napoli per le Pari Opportunità e Capogruppo del gruppo consiliare Città ideale.
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne 2015 ha esplicitato la necessità di denunciare il fenomeno della violenza non soltanto come fenomeno criminale. A cosa allude precisamente quando parla di diverse forme di violenza sulle donne?
Si tratta sicuramente di un fenomeno criminale, il problema è che noi accentriamo il tema della violenza esclusivamente su questo aspetto, che costituisce la fase finale, la più eclatante, ed è quella dello stupro, ma anche dell’uccisione di una donna, quello che viene chiamato con un termine molto brutto, femminicidio, ma non vediamo come si arriva a questi estremi. C’è una violenza silente, molto legata alla relazione di coppia, che avviene nelle mura domestiche. La violenza può partire dal controllo della vita dell’altra, dall’esercitare un potere sul suo tempo, dal costringerla a rispondere in forma quasi di comando e di obbligo alle imposizioni del marito. C’è, quindi, tutto un percorso che le donne vivono all’interno delle mura domestiche.
E anche poi al di fuori delle mura domestiche, nell’ambito lavorativo ad esempio
Da un punto di vista statistico, relativo ai tassi di omicidi e violenza perpetrata nei confronti delle donne, la violenza intrafamiliare è superiore del 40 % circa rispetto a quella subita per strada. Parliamo della violenza fisica, materiale, superiore nelle mura domestiche, quindi nelle relazioni uomo donna. Poi subentra il fatto, a proposito della visione patriarcale della nostra società, che le donne sono certamente molto più subalterne e soggette agli uomini di quanto non credano loro stesse, di quanto gli uomini stessi non credano. Ultimo caso, l’episodio di Colonia: è stato letto solo nei termini di uno scontro di civiltà. Se nella nostra civiltà emancipata e liberale, in particolare tra le donne tedesche, ancor più emancipate e libere, si introducono elementi negativi come gli immigrati con la loro cultura islamica succederebbe quello che è successo. Credo che questa interpretazione prevalente sia una lettura becera, ignorante e grossolana. Innanzitutto perché io credo che in Germania, come in Italia, come nel resto dell’Europa ci sia ancora fortemente una connotazione patriarcale dell’organizzazione sociale, ragion per cui noi non ci possiamo vantare di essere donne civilizzate, né tantomeno gli uomini dell’Europa si possono vantare di avere una relazione di reciprocità e rispetto con le donne.
Ho avuto modo di leggere il suo scritto “Donne si nasce, differenti si diventa. La relazione madre-figlia nel processo di soggettivazione”. Qual è l’immagine della donna da cui è necessario allontanarsi per acquisire una nuova consapevolezza?
C’è una tradizione, che noi abbiamo chiamato ai tempi del femminismo attivo militante, genealogia femminile. Corrisponde alla tradizione che passa da madre a figlia, che passa attraverso gesti, atti simbolici, abitudini casalinghe, attraverso cui si trasmette un patrimonio di cultura di donne che è la cura della casa, il ricamo. Io non sono di quelle femministe che dicono che la donna non debba, ad esempio, ricamare; per me si tratta di saperi, di un patrimonio di saperi di donne che passa da madre a figlia e che non è fatto solo di saperi materiali, ma è anche il sapere della cura. Assieme, però, a questo patrimonio, che è un valore sociale oltre che personale, passa anche qualcos’altro, ovvero l’immagine del sacrificale, ovvero l’immagine di una donna che è esclusivamente quella che cura. Attraverso la cura dei figli, del marito, dei fratelli la donna deve sacrificare il suo tempo, la sua vita, il suo progetto di vita per gli altri. Questo meccanismo è un meccanismo mortale per le donne, in quanto è come se il valore della sua vita dipendesse sempre dagli altri; la sua vita non ha valore se non ci sono gli altri che la legittimano.
La donna non riesce a sentirsi completa se non attraverso l’altro dunque
Io penso che nessuno sia mai completo, perché se fossimo completi saremmo morti; la completezza è la finitezza, mentre noi, invece, siamo sempre in continuo divenire, ci modifichiamo. Il problema è che in quella dimensione sacrificale ne va del valore della vita di ciascuno.
Lei parla spesso di differenze, anche tra uomo e donna. Quali aspetti contraddistinguono l’uomo dalla donna?
C’è innanzitutto il tema della singolarità. Ciascuno di noi è un singolo, il che non significa che è solo. E’ un singolo nel senso che ha una sua composizione, una sua armonia di vita, di esistenza fisica, materiale, psichica che lo rende assolutamente singolo, quindi unico. Sussiste, quindi, una differenza specifica per ciascuno, una differenza che non è un dato naturale, ma è sempre un dato storico, e per storico si intende il linguaggio, la biologia, quindi la visione complessiva dell’umano. Ciascuno è differente. Le donne sono differenti dagli uomini, ma ogni donna è differente da un’altra donna. C’è, poi, un livello in cui questa differenza singolare si caratterizza, da un punto di vista politico, come differenza sessuale, e attiene a ciò che unisce le donne. Il fatto, ad esempio, che il loro corpo sia fatto in un certo modo, sia anche dotato di certe risorse (che poi si usino o meno non ha nessuna importanza) unisce le donne differenziandole da un punto di vista politico dagli uomini. La lettura che ne è stata fatta storicamente è il materno, che, però, non è un destino biologico di ogni donna, ma è una libera scelta che le donne possono fare o meno. Il materno non è caratterizzante dell’essere donna, ma io direi non c’è niente di caratterizzante dell’essere donna che non sia già un elemento politico. Non c’è, in pratica, una biologia che viene prima e una politica che si aggiunge, ma c’è da una parte una cultura patriarcale che legge i corpi delle donne come destinati biologicamente al materno e quindi le incasella in questo, dall’altra parte una cultura femminista che invece legge la vita delle donne, in un’armonia legata tra biologia e storia, fra natura e cultura, in cui le donne sono tutte differenti, però unificate da un progetto che è quello di non essere più subalterne. Nel sociale e nella cultura patriarcale che viviamo le donne si uniscono in un progetto politico perché la riconoscono patriarcale.
Le donne, quindi, si uniscono in un progetto politico per perseguire degli obiettivi comuni. Negli ultimi tempi sembra ne abbiano anche raggiunto qualcuno; basti pensare all’ascesa in politica che lei però, mi sembra di aver capito, ritiene apparente più che reale
Bisogna considerare un processo molto lungo che è quello in cui si modificano le categorie del politico e del sociale. È un processo che passa attraverso l’emancipazione, cioè attraverso dei meccanismi che consentono alle donne di accedere alla rappresentanza politica. Siamo ancora tanto lontani affinché questo meccanismo sia realizzato totalmente.
Quale ruolo politico hanno allora realmente le donne oggi?
Il problema è proprio questo. Se le donne continuano a credere che attraverso un processo lungo, fatto di piccoli passaggi, di piccoli riconoscimenti, finalmente potranno giungere alla liberazione da una condizione di assoggettamento, io penso che da qui ai prossimi trecento anni saremo ancora nelle stesse condizioni. Avremo forse qualche parlamentare in più, ma non sarà cambiata la logica sottostante. Si potrebbe obiettare che aumentando quantitativamente la presenza delle donne aumenta anche la possibilità di modificare regole e comportamenti. Questo parzialmente è vero, però è un processo molto lungo e probabilmente è anche un processo che non coglie il nocciolo della questione.
Qual è il nocciolo della questione? Da dove bisogna partire per scardinare la logica sottostante?
Bisogna partire dall’individuare un altro obiettivo, che non è quello di fare la stessa carriera degli uomini o di avere gli stessi vantaggi degli uomini e gli stessi privilegi degli uomini. Non è quello di essere COME gli uomini. La logica dell’essere come gli uomini finisce per essere perdente perché continua a mettere la donna in una condizione di subalternità, in quanto i privilegi che l’uomo ha sono il suo obiettivo da raggiungere. Io, invece, penso che dovremmo cominciare, come già è stato fatto nel passato, a pensare a come vogliamo costruire la nostra vita, a come noi vogliamo che il sociale si modifichi in relazione a quello che noi sentiamo, ai nostri ordini di priorità, a come costruire una città insieme, uomini e donne. Altrimenti rimaniamo nella visione illusoria di una neutralità. Ci si è mai posti, in pratica il tema: la città in cui viviamo come è stata pensata? Io sono convinta che gli architetti, gli urbanisti non pensano a una città per uomini e donne, tutt’al più possono pensare a mettere qualche parco in più per i bambini, qualche casa per gli anziani, ma non fanno distinzione di sesso. Una città pensata per uomini e donne è lo sforzo che le donne devono fare per modificare il loro modo di vita, i loro tempi, è la città in cui c’è mobilità. Questo premierebbe gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime dato che hanno un tempo di vita che è molto più complesso, è plurimo rispetto a quello degli uomini. All’uomo non viene da pensare: cosa dobbiamo fare oggi? Le loro giornate si svolgono tra lavoro e hobbies personali da coltivare nei fine settimana. Spesso la donna è costretta a chiedere al proprio uomo di tenere i bambini per un pò e questo avviene perché c’è un’educazione, una cultura per cui i figli sono delle donne ed è la stessa cultura per cui la città è pensata come neutra.
Come si coniuga questa accettazione delle differenze con l’espressione pari opportunità, espressione che presuppone, invece, un concetto di uguaglianza?
La legge sulla parità uomo-donna nasce nel 1991. Non è una legge frutto del movimento femminista, ma un compromesso. All’epoca, infatti, io ero militante, radicale, e sono stata molto ostativa nei confronti di questa tesi perché era ispirata a un modello emancipazionista, in quanto le pari opportunità dovevano servire a superare il dislivello tra la vita delle donne e la vita degli uomini.
Ancora una volta la donna che vuole essere COME l’uomo e in questo conferma la sua condizione subalterna
Si, ma è pur vero che da quel governo, da questo Paese di più non si poteva pensare. Il problema è come declinare le pari opportunità. Lo si può fare in maniera assolutamente patriarcale, sottolineando che c’è un gap che va tolto e allora il progetto è muoversi nell’ottica di essere come loro, oppure lo si può fare sottolineando le pratiche politiche positive delle donne, cioè la loro forza. Bisogna alzare il livello culturale delle donne il che significa, questo lo dicono tutti gli economisti a livello mondiale, aumentare il PIL di un Paese, quindi aumentare anche il benessere sociale. Se le donne continuano a mantenere un livello culturale basso, e quindi a non poter avere accesso agli studi superiori e al mondo del lavoro, si riduce la vita di un Paese e noi dobbiamo lavorare per questo. Questa è proprio la politica delle pari opportunità. A tutto ciò si deve aggiungere anche il sottrare le donne all’immagine della fragilità, del disagio, della debolezza. Una cosa per me molto irritante avviene quando si rimarca continuamente il fatto che le donne sono deboli, sono vittima e quindi vanno protette. La tutela maschile sulle donne è quanto di più insopportabile ci sia, le indebolisce ancora di più, non restituisce l’immagine di forza.
Questa forma di tutela giustifica anche il sentimento di paura dilagante tra donne considerate deboli
Certo. Il mio programma, presentato alla regione Campania, verte proprio su questi tre punti: autonomia decisionale, autonomia fisica e autonomia lavorativa. Sono punti fondamentali che liberano dalla dipendenza dall’uomo e modificano l’immagine di donna.
Eppure sembra emergere, soprattutto tra le nuove generazioni, l’immagine di un uomo debole accanto a quella di una donna sempre più forte, nell’ambito delle relazioni sentimentali. Ormai gli uomini sono più deboli delle donne si sente dire spesso.
Questo convincimento non è un bene, peggiora la situazione. L’immagine dell’uomo debole determina e fortifica l’immagine del sacrificale, di una donna che ancor più deve prodigarsi per l’uomo, che deve necessariamente essere dedita al compagno, bisognoso di cure. Due deboli non fanno una forza.
I prossimi eventi in programma?
E’ previsto il marzo donna 2016 che quest’anno si intitola, appunto, “Je sto vicino a te – La forza delle donne tra comunità e territori”. Inoltre, nell’arco di quest’anno, per un periodo di sei mesi, saranno attivati 30 laboratori di alfabetizzazione digitale. Si tratta di un progetto già realizzato per tre volte nella città di Napoli e che mira, attraverso la messa a disposizione di laboratori di alfabetizzazione informatica gratuiti per le donne, al raggiungimento di un livello di acculturazione maggiore, a Napoli molto basso. Bisogna ridurre il digital divide, ovvero la minore capacità di accesso agli strumenti tecnologici per le donne. Altre iniziative riguardano l’avviamento di laboratori sartoriali e di corsi di cucina, oltre che il mappare tutte le scuole dove si tengono corsi serali di lingue o per il conseguimento del diploma di scuola media in modo tale da renderli accessibili alle donne, in quanto se non si possiede il diploma di scuola media non si può accedere ai corsi professionalizzanti regionali che sono gratuiti.
Avrà avuto modo di ascoltare, in diverse occasioni, voci di donne discriminate. Quali sono i disagi più frequentemente manifestati?
La mancanza del lavoro. Due anni fa, per il marzo donna 2014, feci allestire in ognuna delle dieci municipalità un gazebo in cui si distribuivano delle cartoline. La parte anteriore delle cartoline riportava la frase dai bisogni ai desideri, mentre sul retro riproducevano il format di una cartolina con la scritta donaci un tuo desiderio, noi lo accoglieremo. Sono arrivate circa 8000 cartoline. La costante nelle richieste ricevute era la salute dei figli, la salute delle persone care e il lavoro. Questo manca. Questa è una città in cui le donne non riescono a lavorare.
In quanto sostenitrice dei diritti delle persone omosessuali cosa ne pensa del disegno di legge Cirinnà e delle relative polemiche?
Il disegno di legge Cirinnà è il minimo. Siamo un Paese incivile sotto questo aspetto; il disegno di legge deve passare così come è stato elaborato. Dal momento che mi occupo di pari opportunità, ho anche il gravoso compito di occuparmi delle persone LGBT. Parlo di gravoso compito perché queste persone sono molto presenti nella vita del Comune, sono molto presenti nella vita della città a livello istituzionale, soprattutto l’Arcigay, condotta da Antonello Sannino. Gli LGBT hanno, a differenza delle donne, che sono molto più frammentate di loro, un’associazione limitata nel numero, in quanto gli aderenti non corrispondono a tutte le persone omosessuali di Napoli, ma molto combattiva perché ispirata a una forma di revanscismo nei confronti di una cultura omofobica. Hanno, quindi, un obiettivo preciso, si sentono combattenti in una vera e propria guerra e, come tali, non perdono una battaglia, avanzano come dei carri armati. Hanno trovato un sindaco molto disponibile, più aperto nei confronti degli LGBT che nei confronti delle donne. Questo perché la percezione più diffusa, non solo tra gli uomini ma anche fra le donne, è che le donne ormai il problema non ce l’hanno. Se alle donne, soprattutto alle giovani donne, faccio un discorso come quello che sto facendo ora mi bollano come vecchia femminista, ritenendo, invece, di essere ormai libere ed emancipate. Io so che non è così perché vivo l’ambiente universitario in cui le ragazze sono costrette ad ammettere la non validità delle precedenti affermazioni nel momento in cui espongo determinati aspetti, per esempio quello della dipendenza affettiva.
Il dialogo può aiutare per superare questa frammentarietà tra le donne?
Certo. Se noi non cominciamo a mettere in discussione la cultura maschile sono gli uomini a essere la nostra misura. Le donne sono competitive fra di loro. C’è competizione riguardo la bellezza, quando l’una è più bella dell’altra, ma anche riguardo il successo, guai se una donna ha successo e avanza mentre le altre stanno indietro. Invece di allearsi le donne diventano nemiche giurate. Non c’è la cultura dell’alleanza perché, secondo me, gli uomini, che su questo sono stati molto bravi, ci hanno tolto gli obiettivi, ci hanno disinnescato la rabbia e la passione politica, quella stessa passione che, invece, le persone omosessuali avvertono fortemente e che li condurrà nel Consiglio comunale, in Parlamento.
Cosa fare, nella pratica, per riattivare la passione politica?
Incontri, incontri e ancora incontri. Il problema è che le donne sono settarie, non si uniscono, non fanno collante tra di loro. Gli LGBT all’interno dell’Associazione litigano in continuazione tra loro, ma quando devono fare qualcosa all’esterno sono uniti. Le donne mai. Questo è segno del fatto che gli LGBT arriveranno molto prima di noi donne all’autonomia, all’emancipazione, alle conquiste.
Simona Marino insegna Filosofia Morale all’Università “Federico II” di Napoli. Crede profondamente nell’importanza dell’insegnamento, non solo come trasmissione del sapere, ma come cura e attenzione per le differenze di ciascuno/a. E’ madre e nonna felice. Refrattaria ad ogni forma di appartenenza esclusiva, ritiene che la politica sia un servizio a favore della comunità e in particolare di quei soggetti che ne vivono ai margini, privati dei diritti e della dignità. La sua esperienza è maturata in lunghi anni di militanza nei movimenti delle donne, dove ha acquisito una pratica di relazione e di ascolto dei bisogni che pone al centro la dignità e il valore singolare di ciascuno/a. Per venti anni, oltre al suo ruolo di docente e di studiosa del pensiero contemporaneo, ha diretto la casa editrice Filema curando la collana di filosofia e di narrativa femminile. La sua passione politica l’ha spinta a praticare i luoghi istituzionali e a entrare in consiglio comunale, non come rappresentante, ma come portavoce delle istanze e dei bisogni delle donne e di coloro che non hanno voce, confidando nella possibilità che il suo contributo possa dare vita ad una città più giusta e felice per uomini e donne. Dal febbraio 2014 ricopre la carica di Delegata dal Sindaco di Napoli per le Pari Opportunità.
Credits Photo: Giacomo Ambrosino ( GMPhotoagency)