[highlight]Considerazioni sulla presentazione del nuovo libro di Erri De Luca, “Il più e il meno”, al cinema Vittoria di Napoli[/highlight]
[quote]Li chiamo anni di rame, fili che conducevano la corrente elettrica delle lotte sociali, da Testa Gemella Occidentale sulle Alpi Aurine a Punta Sottile a Lampedusa, le estremità geografiche del nostro paese[/quote]
[Erri De Luca, “Il più e il meno”, FeltrinelliEditore]
E’ carichi di questi e altri concetti che ci si reca volenterosi e pieni di aspettative all’incontro con Erri De Luca, il quale presenta il suo nuovo libro al cinema Vittoria di Napoli, all’angolo tra via Piscicelli e piazza Arenella.
“Uno che ha vissuto il Sessantotto – pensi mentre ti avvicini al luogo dell’appuntamento. Alla fine, nella mia mente, si chiuderà un Sessantotto e se ne aprirà un altro, nel giro di pochi secondi, nello spazio di esigui metri quadri, all’interno della medesima sala cinematografica.
L’evento è stato organizzato dall’Università degli Studi di Napoli Federico II col patrocinio del Comune. In sala varie scolaresche liceali, pochi studenti universitari e qualche frequentatore assiduo del cinema. Ad aprire l’incontro è stato il preambolo di rito tenuto da uno dei rappresentanti comunali, seguito dalla presentazione del libro e dell’autore da parte della professoressa Silvia Acocella, docente di Storia della Letteratura Italiana Contemporanea alla Federico II. Breve ed efficace, la professoressa ha racchiuso in un’antica formula l’essenza delle ultime fatiche di Erri De Luca: “vulgo est adversa et secunda”, in riferimento al significato quasi opposto tra “La parola contraria” e “Il più e il meno”. Due opere in cui De Luca tratta dell’importanza di ciò che si dice e della pervicacia che bisogna avere nel mantenere le idee in cui si crede davvero.
Non è un caso che, anche in occasione della presentazione del nuovo libro, le parole più stimolanti pronunciate dall’autore abbiano riguardato la recente vicenda che lo ha visto coinvolto in un procedimento giudiziario in merito ad una frase pronunciata sulla questione NoTav. Parole che gli hanno procurato l’assurda accusa di “istigazione al boicottaggio”, seguita fortunatamente dall’assoluzione:: “Il fatto non sussiste”. E la sentenza fa ancora sorridere e rammaricare lo scrittore napoletano.
Tra battute e metafore più o meno illuminanti, Erri De Luca ha spiegato il significato de “Il più e il meno” che verte su una dinamica prettamente temporale:
[quote]L’idea è legata ad un augurio di un nipotino alla nonna: “Auguri nonna, il più è fatto!” Che schifo di augurio… Ebbene, il più si riferisce davvero a quanto è già stato fatto, il meno è quello che resta da fare giunti ad una certa età[/quote]
E’ questo il senso, a dire il vero suggestivo e interessante, di un libro partorito dalla mente di un uomo che ama la lettura, uno che vive la cultura in modo semplice e spiritoso (in napoletano, come quando parla di Democrito e Platone). Un uomo che sa e vuole scrivere soltanto in prima persona, di ciò che conosce e prova, cercando di riportare alla mente e alla luce personaggi e vicende raccontate dal suo personale punto di vista. Una presa di posizione artistica e narrativa di tutto rispetto, seppur più o meno condivisibile dagli addetti ai lavori.
Lo scrittore-operaio e la professoressa sconosciuta
Deconstructing Erri! Prendendo in prestito il titolo di un film di Woody Allen – italianizzato nel nome del protagonista – si potrebbe iniziare a spiegare la seconda parte dell’incontro con Erri De Luca. Dopo la presentazione del libro, l’autore ha dato modo alle persone del pubblico di rivolgergli alcune domande nel buio della sala. Il modo più scomodo per porre e rispondere a domande in maniera approfondita. Ma va bene. Tra interrogativi più o meno interessanti e qualche risposta che oscillava tra la speranza e il pessimismo – come “no, la Storia non insegna” – il sottoscritto ha posto ad Erri De Luca il seguente quesito:
Partendo da una delle osservazioni che mi ha colpito di più nel suo nuovo libro (quella sugli “anni di rame”), mi piacerebbe molto ascoltare dal vivo questa interessante definizione, che possiamo opporre perfettamente – a mio parere – a quella di “anni di piombo” che la storiografia tradizionale ha voluto tramandare, guardando alla vicenda dalla prospettiva delle istituzioni. Tuttavia, guardandola dal vostro punto di vista, i giovani di quel periodo, la definizione di “anni di rame” mi affascina molto: perché, come ha scritto qualcuno, il ’68 non è durato un anno, ma almeno un decennio. Anche se quei fili di rame si sono consumati in maniera fisiologica e sono stati poi staccati, su una finestra lasciata aperta in pieno inverno e su tante altre vicende che sappiamo come si son svolte (più o meno). Secondo lei, noi giovani di oggi come possiamo riallacciare quei fili?
E ancora: nel 1975 Pasolini scriveva che non avrebbe mai più potuto girare il suo film “Accattone”, uscito al cinema appena quattordici anni prima, perché la classe operaia di prima non c’era più. E io aggiungo, se posso: oggi quel film è ancor più irrealizzabile, perché i figli di operai si sono indiscutibilmente imborghesiti, tutti noi ci siamo inevitabilmente imborghesiti, per scelta più o meno inconscia o per nascita.
Sbaglio se affermo che forse la chiave vincente della rivoluzione dell’epoca era nell’aumento del numero di una figura più unica che rara (rappresentata proprio da lei, Erri De Luca), ovvero quella dell'”operario-scrittore”?
La definizione di “anni di rame” è dovuta proprio a questa rete capillare di collegamenti tra tutte le zone d’Italia, da Torino a Palermo. Hai detto che il Sessantotto è durato un decennio, ma in realtà si potrebbe dire che sia durato anche più a lungo, fino agli anni Ottanta. Se per fallimento della rivolta intendi il non essere riusciti ad arrivare al potere, è vero, le lotte del Sessantotto hanno fallito. Ma se parliamo di diritti, allora no, non hanno fallito: siamo stati in carcere e abbiamo ottenuto da lì la riforma carceraria, siamo stati nelle caserme e abbiamo ottenuto la riforma dell’esercito… Per quanto riguarda Pasolini, lui parlava della scomparsa del sottoproletariato romano, una realtà che conosceva molto bene con la quale Pasolini parlava e giocava a calcio, essendo stato l’unico intellettuale italiano che è stato davvero in mezzo a quella realtà. Per quanto riguarda la questione della tua generazione, il discorso è quello che ho già detto prima: noi eravamo una moltitudine di giovani, voi siete la gioventù meno numerosa della storia d’Italia…
Sì, ma… l’operaio-scrittore? Ora, capisco che il contesto non era quello più adatto a domande e risposte accurate e ben mirate (da cui il frettoloso e non ben formulato quesito e l’incompleta risposta), so e vorrei anche io che temi del genere fossero affrontati con molta più cura e frequenza e – non immaginate quanto – nel corso di questo breve intervento abbia desiderato interrompere Erri De Luca per avanzare delle precisazioni, sul Sessantotto e la consapevolezza che ho delle sue vittorie, su Pasolini e sul sottoproletariato, su quanto manchi all’Italia di oggi la cultura popolare e la vera classe operaia (che De Luca stesso rappresentava), su quanto abbiano reso impossibile gli oligarchi al potere e l’indifferenza giovanile che quei fili di rame si potessero ricomporre e di quanta voglia ci sia di farlo… Sulla vera essenza della figura che manca e che hanno fatto mancare all’Italia post-bellica: quella dell’operaio-scrittore, che non è necessariamente un operaio che possiede la capacità di scrittura di Erri De Luca (lui è un eccezione), ma un qualsiasi lavoratore capace di rispondere ai soprusi del potere e di smuovere l’immobilismo totale di cui si è ammalato il nostro Paese. Una risposta a tale ossessione non è arrivata. Resta il dubbio che forse la nascita di una figura del genere avrebbe potuto compiere a pieno i progetti dei coraggiosi e formidabili animatori del Sessantotto. Più Erri De Luca, questa era la risposta che forse sentivo echeggiare nella mia testa, proprio mentre Erri De Luca mi smentiva.
Tuttavia, per un Sessantotto che si chiude tristemente ce ne è un altro che si apre, a sorpresa. Perché, mentre formulavo il mio ingenuo quesito, notavo molti cenni di approvazione in sala e, con mio grande piacere, posso affermare che a muoversi in maniera decisa e convinta erano soprattutto teste canute. Una signora si è voltata più volte mostrando un’espressione di consenso, mentre la professoressa dei ragazzi del liceo che era seduta accanto a me mi chiedeva: “Cosa studi? Dove?” e altre convenzionali curiosità. È così, che mentre i ragazzi in sala rivolgevano altre domande a De Luca e lui rispondeva con metafore non proprio richieste, il mio orecchio libero ascoltava lo sfogo di quest’altra anima sessantottina: “Io sono della sua stessa generazione sai? Non del ’50, ma del ’53. Anche io ho fatto il ’68 e non è partito da movimenti studenteschi, ma operai, come diceva pure Pasolini. E ancora oggi provo a fare qualcosa. Ogni volta che porto i miei fanciulli fuori per uscite del genere cerco di fare il possibile affinché colgano qualcosa di utile. E non sai quanto bestemmio tra me e me quando sento i miei colleghi che fanno: – Ah vabbè, allora escono domani. Bello – Che rabbia!” E continuava continuava, fino alla questione della pensione e all’augurio di far carriera perché “parliamoci chiaro, ce la metto tutta, ma un ricambio generazionale ci vuole…” Sussurrando, ma neanche troppo. Tanto che una ragazza, seduta davanti, si innervosiva perché desiderosa di continuare ad ascoltare le risposte che Erri De Luca stava riservando ora a ragazzi che – devo dire – trasmettevano una gran voglia di cambiamento ed erano poco interessati a ricevere le ultime metafore della mattinata. La ragazza etichettava continuamente la professoressa come “scostumata” e, in effetti, quella situazione metteva a disagio anche me. Ma sono stato piacevolmente impressionato da come la docente fosse desiderosa di trasmettere il suo messaggio e la sua prospettiva di resistenza, che addirittura non sembrava avesse neanche udito la lamentela che le sue parole stavano scatenando. Il più lo aveva già fatto. Ora, in attesa della pensione, stava davvero cercando di fare quel meno che le resta da fare. È in lei, nei ragazzi che rifiutavano le metafore e ripetevano le domande alla ricerca di una guida concreta e anche in Erri De Luca, l’unico operaio-scrittore che conosca, che l’ho visto: il filo di rame spezzato che si contorce nel buio della sala del cinema Vittoria e in chissà quanti altri posti d’Italia, alla ricerca di un collegamento che non trova ormai da decenni.
Perché infondo uno degli insegnamenti più importanti ricavati dallo scrittore durante la presentazione riguarda proprio la capacità di critica: “Non criticate abbastanza – ha asserito Erri De Luca rispondendo ad un’altra domanda sulla generazione di giovani attuale, – prendete per buone le notizie che vi danno, senza mettere niente in discussione. A volte bisogna chiedersi se è l’aquilone che tira il filo o il filo che tira l’aquilone”. Ecco, appunto. Forse non a volte, ma molto spesso: lo scrittore-operaio, la professoressa che continua a far resistenza, i ragazzi impazienti… E’ per questo che si lascia il cinema Vittoria con meno entusiasmo, ma con la consapevolezza di non aver guadagnato soltanto un autografo sul libro.