[highlight]Dal tetto del mondo alle sabbie mobili della Serie A. La parabola discendente del Milan, una delle squadre più titolate d’Europa.[/highlight]
Domenica 25 ottobre il Milan di Sinisa Mihajlovic è tornato alla vittoria in campionato, dopo aver ottenuto un solo punto nelle ultime tre partite. Oltre al pareggio in casa del Torino, infatti, i rossoneri erano stati sconfitti a Marassi dal Genoa di Gasperini e in casa dal brillante Napoli di Sarri, in una delle disfatte più catastrofiche nella storia recente di questa squadra che ha allarmato e scatenato proteste anche vibranti nei tifosi più “incandescenti”.
Ma la crisi del Milan va avanti da anni, tanto che gli stenti di inizio stagione passano quasi in secondo piano. Anzi, in un certo senso, sembravano addirittura annunciati e facili da preventivare. Dopo un pre-campionato promettente e una campagna acquisti molto più dispendiosa rispetto a quelle delle ultime estati (circa 90 milioni spesi), il Milan doveva tornare a lottare per le posizioni più alte del campionato. Ma, ancora una volta, il campo ha decretato il contrario, almeno per ora. Alla sconfitta dell’esordio in casa della Fiorentina, sono seguiti risultati altalenanti che non hanno mai esaltato davvero il tifo rossonero.
Anche nella vittoria di domenica contro il Sassuolo, gli uomini di Mihajlovic hanno lasciato molto a desiderare salvandosi – letteralmente – in calcio d’angolo. Come contro l’Empoli, sempre a San Siro, è stato un colpo di testa di Luiz Adriano su azione di corner a decretare il successo del Milan contro una squadra che non fa del blasone la sua forza, ma della compattezza e del bel gioco la sua arma migliore. Contro il Sassuolo, come in occasione delle vittorie contro Palermo, Udinese e lo stesso Empoli, Montolivo e compagni non hanno convinto. Anzi, in undici contro dieci dalla mezz’ora, la vittoria per 2-1 nel finale somiglia molto di più ad una mezza sconfitta. In vantaggio grazie al rigore realizzato da Carlos Bacca, il Milan si è fatto riacciuffare nella ripresa da una punizione di Domenico Berardi, che contro i rossoneri ha realizzato quasi il 25% delle sue reti totali in Serie A.
Il gol decisivo di Luiz Adriano, quindi, non può far altro che regalare aria in classifica, ma di certo non rende contenti tifosi e dirigenza di quello che è stato l’operato di Mihajlovic fino a questo momento. Lo stesso Silvio Berlusconi, come riporta il Corriere della Sera, a fine partita si è congratulato con gli uomini di Di Francesco denigrando implicitamente (ma neanche tanto) il lavoro svolto dal suo allenatore:
[quote]Complimenti, avete dettato legge in 10 contro 11. Avreste meritato il pareggio. Come siamo ridotti male noi al Milan.[/quote]
Proprio lui, l’artefice principale dei successi rossoneri dell’ultimo ventennio, che critica la sua creatura. Ma dove finiscono le responsabilità degli allenatori del Milan di questi anni e dove iniziano quelle della dirigenza e del patron? Questa è una domanda che a Milanello viene posta senza ricevere risposta da troppo tempo ormai. E non è un caso che uno dei punti più bassi della storia del Diavolo coincida proprio col momento in cui anche il trofeo tanto caro alla proprietà ha perso ormai di fascino e prestigio, anche a livello amichevole. Si tratta del famoso Trofeo Berlusconi che da grande appuntamento del calcio estivo sta scivolando man mano nel dimenticatoio facendosi spazio a fatica tra una sosta e l’altra per gli impegni delle Nazionali. Quello stesso Trofeo Berlusconi che quest’anno – l’anno dell’Expo – ha riunito in un San Siro desolato la crisi diversa e identica delle due squadre di Milano, raccontata spiritosamente così dagli Autogol:
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La crisi… del giuoco calcio
I tempi in cui Silvio Berlusconi arrivava sorridente in elicottero a Milanello non sono poi così lontani. Ancora oggi l’ex primo ministro italiano è avvezzo ad utilizzare questo mezzo per raggiungere il campo sportivo del Milan. Ma tra il primo Berlusconi versione sportiva e quello più recente passa un grande differenza. Quando acquistò il Milan il 20 febbraio del 1986, l’imprenditore milanese era nel pieno della sua ascesa economica, che avrebbe fatto poi da preludio a quella politica. Nello stesso periodo, infatti, Berlusconi si accingeva ad impossessarsi della Mondadori mentre ai tifosi della sua creatura ancora da formare prometteva grandi cose, poi mantenute nel tempo:
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Ora, però, la classica frase che accompagna quasi tutte le sue interviste sportive, di un “Milan padrone del campo e del giuoco” non fa tremare più gli avversari, ma si avvicina più ad uno stanco ritornello che rasenta il ridicolo ogni volta che il prospetto non viene mantenuto poi nei fatti. E la colpa, evidentemente, non è solo dei giocatori o dell’allenatore di turno. Se la maglia del Milan non è più indossata da Maldini, Gullit, Van Basten e Donadoni, Pirlo, Seedorf, Kakà e Shevchenko, c’è un perché. E un “responsabile”. La crisi economica che ha colpito l’Europa e l’Italia non ha risparmiato nessun settore industriale e neanche il calcio, in quanto vero e proprio business, è stato risparmiato. La Serie A ha notoriamente subito un’involuzione negli ultimi anni, tornando a spendere soltanto nell’ultima estate, grazie soprattutto agli investimenti di cordate o imprenditori stranieri (vedi Roma, Inter e lo stesso Milan). Non solo. Berlusconi non è più quello di un tempo, in tutto e per tutto. Proprio l’affare che accompagnò l’acquisto del Milan a fine anni Ottanta, quello della Mondadori, è tornato a farsi sentire – stavolta col segno meno – nelle tasche dell’ex premier nel 2011, quando la Fininvest di Berlusconi ha dovuto sborsare 494 milioni di euro a Carlo De Benedetti. Se a questo si aggiungono le numerose vicende giudiziarie e quelle personali (come il divorzio dalla moglie Veronica), si può intuire facilmente che i pensieri di Silvio Berlusconi non sono rivolti tutti al Milan…
Galliani, il braccio destro che perde colpi?
Allora serve un braccio destro. Ma quello, all’interno della dirigenza rossonera, non è mai mancato. Da quasi trent’anni a questa parte, gli occhi e le mani di Berlusconi al Milan portano il nome di Adriano Galliani, amministratore delegato della società e protagonista di tutti i successi della squadra da quando è stata prelevata dal proprietario della Fininvest. Ma anche per lui sembrano finiti i tempi delle esultanze scatenate, delle mani tra i capelli (che non ci sono) e delle strane espressioni che hanno fatto la fortuna di Striscia la Notizia. Da grande dirigente di calcio e punto inamovibile del Milan, Adriano Galliani è passato ad essere la barzelletta dei social, ovviamente per colpe che spesso prescindono dalle sue capacità manageriali, indiscutibilmente molto elevate. Da quando la famiglia Berlusconi non ha investito come prima nella squadra, anche Galliani ha dovuto imparare a fare i salti mortali durante le sessioni di calciomercato. Qualche volta è andata bene, altre volte è finita in autentica beffa. E’ dal 2010, infatti, che i tifosi rossoneri non si consolano con un vero grande colpo di mercato. Allora arrivò Zlatan Ibrahimovic, il quale si presentò al pubblico con prospetti di gloria, dettati più dal suo immenso ego e dalla voglia di rivalsa nei confronti della sua ex squadra (l’Inter fresca di triplete) che dalle reali aspirazioni di quel Milan, che comunque era ancora forte della vecchia guardia e di nuovi acquisti del calibro di Boateng e Robinho. La profezia di Ibra si realizzò solo in parte con Allegri che condusse i suoi al diciottesimo scudetto nella storia del Diavolo.
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Ma quel trionfo oggi, e forse anche allora, sembra avere più le caratteristiche dell’ultimo sussulto di un malato illustre, troppo orgoglioso per mollare così presto la presa. Proprio con Allegri si è verificato l’inizio del calo per colpe che spettano solo in parte all’attuale allenatore della Juventus. Infatti, ciò che a volte sembra dimenticare la critica calcistica, è il merito del mister toscano in una situazione resa sempre più disperata dagli errori della dirigenza e dalle scarse risorse economiche. Se è vero che il peccato originale di Allegri, l’esclusione di Pirlo, è testimoniato dalle poche presenze del regista azzurro nella stagione dello scudetto, è altrettanto vero che, subito dopo il tricolore, la dirigenza aveva deciso di prolungare solo di un anno il contratto agli ultra trentenni, che in quel momento corrispondevano a coloro che hanno fatto la storia recente del Milan. L’unico a non accettare le condizioni poste dall’alto fu proprio Pirlo, il più giovane del gruppo, che decise così di volare alla volta di Torino, a parametro zero. Fare un’eccezione per il centrocampista bresciano avrebbe comportato due conseguenze: la prima positiva, cioè la permanenza di Pirlo a Milano e l’ovvia mancanza di un tassello importantissimo nella nuova Juve di Conte; la seconda meno gestibile, ovvero la mancanza di riguardi nei confronti di campioni del calibro di Nesta, Seedorf, Gattuso, Ambrosini, Inzaghi. Un particolare, questo, che quasi mai viene evidenziato.
E poi la carrellata di parametri zero e ritorni che fanno solo piacere al cuore, ma non al palmarès (vedi Shevchenko e Kakà) con le recenti campagne acquisti del Milan che non si sono più fregiate di grandi nomi, ma appoggiate su speranze e promesse. L’ultimo colpo, almeno stando a quanto dice il campo fino a questo momento, porta il nome di Bonaventura, mentre quello che ha fatto più clamore dal 2011 in poi si chiama Mario Balotelli. Una scommessa, più che una grande mossa di mercato, che ha fatto ben sperare e poi ha deluso le aspettative dei tifosi rossoneri. Ma in quel caso la colpa, più che di Galliani e della dirigenza, è del giocatore. Anche se sbagliare è umano, ma perseverare…
Ciò che è mancato davvero in questi anni, tuttavia, è stato un piano tattico. Rispetto ad altre società, la forza del Milan è sempre stata quella di pianificare a tavolino una squadra capace di costruire gioco, far divertire i tifosi e rispondere alle esigenze dell’allenatore di turno. Sacchi, Capello e infine Ancelotti hanno costruito le loro fortune coperti da una società forte e competente che ha sempre garantito loro giocatori di alto livello, capaci di fare gruppo e schiacciare letteralmente l’avversario in campo. Esattamente ciò che è mancato da Ancelotti in poi, con Allegri che ha vissuto dei fasti passati per un solo anno e i poveri, inesperti Seedorf e Inzaghi (e prima ancora Leonardo) abbandonati a se stessi e alle speranze della Curva. Perché passare da un centrocampo composto da Pirlo, Seedorf, Rui Costa, Kakà, addirittura un tale Redondo a riscaldare la panchina a quello composto da piedi d’acciaio come quelli di Van Bommel, De Jong, Poli e Kucka (in ordine sparso) è un colpo troppo duro da respingere. E questo non dipende dalle disponibilità finanziarie perché, come dimostra l’acquisto di Bonaventura, giovani di qualità si possono trovare anche a prezzi più modesti o addirittura in casa propria (vedi Cristante). Inoltre, affidarsi a giocatori con queste caratteristiche proprio nella zona più delicata del campo esclude a priori la possibilità di compiere la mission presidenziale, che è quella di dominare il campo e il gioco, a prescindere dall’allenatore che siede in panchina e dall’esperienza che ha maturato in precedenza.
Da Lady B. a Mister Bee
L’unico vero momento in cui il posto di Galliani è stato in seria discussione, però, risale al 2011/2012, quando Barbara Berlusconi, figlia di Silvio e Veronica Lario, ha cominciato ad insediarsi all’interno della dirigenza milanista. Per un periodo di tempo, proprio mentre il Milan lottava per il suo ultimo scudetto sul campo, l’attenzione dei media si è spostata sul duello per la poltrona di amministratore delegato, alla fine divisa in due tra i due contendenti, con Galliani che si occupa – come da oltre vent’anni – degli affari sportivi della società e Barbara di quelli sociali, tra cui la fondazione di Casa Milan (una delle poche cose positive registratesi negli ultimi tempi). Lady B. è entrata a far parte della società calcistica di suo padre nel periodo di Pasqua del 2011, quando il Milan di Berlusconi si preparava a compiere 25 anni e quello di Allegri si avvicinava al diciottesimo scudetto con una sofferta vittoria sul campo del Chievo Verona. Un successo che porta la firma – guarda un po’ gli scherzi del destino – dell’allora fidanzato di Barbara Berlusconi, quell’Alexander Pato dalle potenzialità eccelse e dai muscoli fragili che, dopo quel lampo, ha lasciato compagna ed Europa per tornare in Brasile in cerca di un exploit sportivo che nessuno sa se avverrà mai.
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Da Lady B. a mister Bee, però, il passo è breve. Le società italiane hanno bisogno, quasi in maniera innegabile, dei capitali di imprenditori esteri, proprio come sta succedendo un po’ in tutta Europa, per tornare ad essere davvero competitive. La Roma è in mano agli americani, l’Inter all’indonesiano Thoir e il Milan – che non può restare indietro – sta contrattando dallo scorso aprile con il tycoon thailandese Bee Taechaubol, disposto ad investire 500 milioni di euro per acquistare il 48% della società. Segno che la volontà della famiglia Berlusconi di restare a capo dell’azienda Milan è autentica, come la necessità di disporre di un importante capitale straniero per stare al passo coi tempi e con le altre grandi d’Europa. Per tornare ad essere realmente la squadra vincente e dal giuoco entusiasmante che ha fatto appassionare milioni di persone in giro per il mondo in tempi in cui i colori rossoneri erano indossati da giocatori degni del Pallone d’oro e la panchina occupata da veri strateghi del calcio.