[highlight]In Catalogna hanno vinto gli indipendentisti. Ma ci avevano già provato in Scozia, poi la crisi della Grecia, i flussi migratori, le decisioni della Merkel. L’Europa sta cambiando sempre più velocemente[/highlight]
Giorno dopo giorno si muove qualcosa. Che sia una piccola foglia scricchiolante d’autunno o un uragano politico e mediatico, l’Europa negli ultimi anni è stata travolta da un’ondata di modifiche e cambiamenti che ne stanno mutando l’aspetto geopolitico in maniera lenta, ma decisa.
L’ultimo “terremoto” si è verificato lo scorso 27 settembre quando in Catalogna gli indipendentisti hanno ottenuto una significativa vittoria nel referendum che apre la strada alla secessione dalla Spagna.
Indipendentisti al comando: 72 seggi su 135. Batosta per Rajoy
[quote]Abbiamo vinto. Ha vinto il sì e ha vinto la democrazia. Ora chiediamo che gli altri accettino la vittoria della Catalogna e la vittoria del sì[/quote]
Queste le parole di giubilo di Artur Mas, presidente uscente della regione e leader del partito Junts Pel Si’, promotore e vincitore assoluto di questo referendum, insieme agli altri partiti indipendentisti di sinistra che hanno totalizzato la bellezza di 72 seggi su 135 totali nel nuovo Parlamento di Barcellona. Un risultato che fa tremare il governo centrale di Madrid e soprattutto il futuro in politica del presidente Mariano Rajoy, il cui Partido Popular ha ottenuto appena 11 seggi (ne aveva 19 prima delle elezioni) superando di poco l’8% dei voti.
Totalmente opposti gli umori dall’altro lato dello schieramento, con il già citato Junts Pel Si’ e Cup (Candidatura d’Unitat Popular) che già pensano alla secessione, dopo aver mantenuto la promessa del referendum a cui ha partecipato un numero maggiore di votanti rispetto alle ultime elezioni presidenziali. L’affluenza e i risultati fanno ben sperare la coalizione di sinistra che prepara la divisione definitiva da Madrid per il 2017. Se ciò si verificasse, sarebbe un terremoto politico per la Spagna capace di portare numerose scosse di assestamento anche nel resto d’Europa.
In ambito continentale, comunque, non mancano le reazione entusiaste per l’esito del referendum catalano. La prima (e forse più colorita) viene dal profilo facebook di Matteo Salvini, che avrà immaginato sognante il verde scintillante delle bandiere padane sventolare al posto del giallorosso della Catalogna, mentre scriveva sul suo profilo facebook:
[quote]Forza Catalunya! Alla faccia di Bruxelles e degli Stati centralisti, che vogliono cancellare popoli, lingue, culture, identità e lavoro, c’è chi resiste e partecipa, nel nome della Libertà. Grazie![/quote]
Al resto d’Europa, però, interessa soprattutto la reazione di Angela Merkel – che a quest’ora ha altre macchine ( non politiche) a cui pensare – che si era già pronunciata a sfavore dell’indipendenza catalana nel corso di quest’estate esprimendo tutto il suo appoggio al presidente spagnolo Rajoy:
[quote]Difendiamo l’integrità territoriale di tutti gli Stati, che è qualcosa di totalmente diverso dall’indipendenza di una regione[/quote]
E la Grecia? Sempre più lontana…
Ma Merkel significa Europa, la Germania comunque è leader indiscussa dell’Ue e l’Ue è legata inevitabilmente (ma non del tutto) all’euro. Tutto il percorso mentale non può che ricondurre alla Grecia, la cui situazione è senza ombra di dubbio la più critica di tutti gli altri paesi del continente. Se la Catalogna si sta allontanando dalla Spagna, la Grecia (e soprattutto, i greci) si stanno allontanando dall’Europa. Il referendum dello scorso 5 luglio è un tassello essenziale nella storia del continente. Il No espresso dalla maggioranza degli aventi diritto servì allora a respingere le condizioni poste dai creditori europei per evitare alla Grecia di andare in bancarotta. Da lì le dimissioni del vulcanico ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, da lì le consultazioni tra Merkel e Hollande, da lì il secondo governo Tsipras…
Tanto fumo negli occhi, insomma, con gli inquietanti motivi del mancato default spiegati in tempi recenti anche da Giampaolo Conte sul Fatto Quotidiano del 22 settembre scorso:
[quote]Nonostante i bailout vengano propinati come strumenti necessari per l’uscita della Grecia dalla crisi, in realtà molti di questi denari sono serviti a “togliere le castagne dal fuoco” a banche private: francesi e tedesche in primis, ma anche italiane e greche, che erano pesantemente esposte sulle finanze elleniche. Il fallimento di Atene avrebbe significato grandi perdite per le banche private già messe sotto pressione dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008. L’unico taglio (haircut) del debito greco è datato 2012, quando buona parte dei titoli era già passata dalle banche agli Stati.[/quote]
Grecia presa per i capelli dall’Europa, ma tentata – secondo le voci più dedite al sensazionalismo – dall’alleanza con Russia e Cina che la farebbero tendere in maniera clamorosa verso oriente. Ma questa è chiaramente fantapolitica.
Il no della Scozia, che comunque ci ha provato
Prima della Catalogna, ci aveva provato la Scozia a scuotere gli equilibri ormai storici dell’Europa. Il 18 settembre 2014 il primo ministro scozzese Alex Salmond ha mantenuto la promessa fatta durante la campagna elettorale del 2007, che portò alla vittoria del suo Partito Nazionale Scozzese, di indire un referendum circa l’indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna. Alla semplice e chiara domanda “La Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?”, ha risposto più dell’84% degli elettori registrati: il 55.3% ha scelto il No mantenendo quindi l’unione politica col resto del Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord che dura (con questo titolo preciso) dal 1922, e cioè da quando gran parte dell’Irlanda (l’attuale Eire) si divise dal resto del Regno.
Ma queste sono soltanto alcune delle scosse che di volta in volta muovono i delicati equilibri di un’Europa che sembra sopravvivere ormai su un filo sempre più sottile e precario, dal punto di vista politico ed economico. Si tratta degli eventi e dei risultati più vistosi che, per la superficie e l’importanza dei Paesi coinvolti, fanno più clamore rispetto ad altri cambiamenti che si verificano in modo ancor più frequente all’interno degli Stati europei stessi. Con le naturali e ovvie conseguenze che questi hanno poi a Bruxelles e sulla vita quotidiana dei vari popoli, coinvolti in maniera più o meno diretta. Perché, se è vero che il progetto dell’Unione Europea non sta dando esattamente i frutti sperati dai padri fondatori (per usare un delicato eufemismo), è altrettanto vero che ha creato una rete complessa di collegamenti tale da far avvertire il più lieve dei lamenti che si verificano nella parte dell’Europa più vicina all’Africa fino all’estremo nord della penisola scandinava, e viceversa.