[highlight]Ricca di storia e fascino, Budapest è modernità e memoria fatta di storie note e ancora da raccontare[/highlight]
Non è una delle mete più ambite in estate (anche se, a giudicare dal numero di turisti che circola per le strade, non si direbbe), ma Budapest esercita il suo fascino anche durante la bella stagione. Chiusa nel bel mezzo dell’Europa, la capitale ungherese affaccia sul Danubio e “compete” ad armi pari con la rivale austriaca Vienna, che le contende lo scettro di regina del fiume.
Le due metropoli, infatti, sono entrambe figlie dell’impero austro-ungarico: Vienna, da sempre ricca e al centro degli interessi degli Asburgo, mantiene ora il suo status di grande capitale europea; Budapest, un po’ più ai margini durante i secoli dell’impero, ha conosciuto prima una forte crescita durante il secondo dopoguerra – in un periodo in cui fece da protagonista (per la sua posizione allettante tra Est ed Ovest del mondo) della Guerra Fredda – e poi una fase di modernizzazione che ha coinciso quasi interamente con una occidentalizzazione del solo centro storico, mentre la periferia sembra essere rimasta un po’ lasciata a sé stessa, almeno a primo acchito.
Un po’ come i turisti che si recano nell’ormai ambitissima Budapest e che non sono di lingua anglofona, o soltanto non masticano tanto bene l’inglese. Rispetto ad altre capitali europee (Berlino, ad esempio), Budapest sembra aver tralasciato un po’ quella parte di visitatori che arrivano in città per ammirarne le bellezze e approfondirne la storia ma che, per un motivo o per un altro, non hanno molta dimestichezza con la lingua più diffusa al mondo.
The Hospital in the Rock, una storia poco nota
A parte la visita guidata al Parlamento (dove il ruolo della guida è ricoperto da qualche anno solo da funzionari dell’edificio), che è disponibile in diverse lingue – tra cui, fortunatamente, l’italiano – molte delle tappe più interessanti di Budapest sono contraddistinte dalla presenza di una guida che parla soltanto in inglese.
L’esempio più eclatante è rappresentato dall’Hospital in the Rock (tradotto, “L’ospedale nella Roccia”) che è davvero una miniera di memorie e gesta da tramandare ai posteri.
Si tratta di una struttura sanitaria, adattata alla forma del sottosuolo ungherese e circondato da una vasta area di cave. La visita all’ospedale è anticipata da un filmato che fa da prologo a ciò che si andrà a vedere e soprattutto spiega il progetto che ha portato alla ricostruzione (molto precisa e iniziata nel 2004) dell’edificio e delle scene a cui vi si poteva assistere durante i suoi anni di attività, che ricoprono il periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale, quello del conflitto, della rivoluzione ungherese del ’56 e della Guerra Fredda. Qui i medici e i soldati offrivano un ricovero sicuro ai feriti sfruttando le improvvisate stanze scavate nel famoso e affascinante distretto del Castello di Buda.
I reparti e le corsie di emergenza sono molto ben rappresentate così come le apparecchiature e i medicinali utilizzati per curare i pazienti. Le statue che si trovano all’interno dei vari reparti sono molto realistiche così come la narrazione degli eventi esposti da guide molto giovani che permettono al visitatore di respirare l’aria di questa struttura sanitaria d’emergenza adattata poi a vero e proprio bunker anti-atomico durante gli anni della Guerra Fredda.
Unica pecca, appunto, la mancanza di guide multilingue. Nel caso specifico, durante la visita del sottoscritto, è stata emblematica una scena: un ragazzo spagnolo che, alla fine di ogni spiegazione all’interno delle varie stanze, traduceva sommariamente ai genitori ciò che la guida aveva detto in inglese.
Tuttavia il tour all’interno dell’ospedale è vivamente consigliato a tutti coloro che si trovano a girare dalle parti di Buda. La ricostruzione dell’atmosfera di quei tempi è molto realistica: è inoltre consigliabile indossare la mantella offerta dalla struttura prima di iniziare la visita perché all’interno della struttura scavata nella roccia la temperatura scende di qualche grado, soprattutto nei periodi più freddi dell’anno. E’ molto interessante anche approfondire le gesta dei vari dottori e delle infermiere che hanno dedicato la loro vita al progetto, come si può tranquillamente evincere dalla pagina dedicata a questa particolare attrazione offerta da Budapest. Una pagina che, ancora una volta, è molto precisa in lingua inglese, ma ricca di mancanze in italiano.
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Memento Park – La memoria avvolta nel silenzio
Quando si esce dal centro vivo e attivo di Budapest, che si viaggi verso est o verso ovest, l’atmosfera diventa surreale. Lasciare la Budapest di oggi significa salutare non solo la parte del Danubio diventata patrimonio dell’Unesco, ma dà quasi l’impressione di lasciare l’Occidente urbanizzato e moderno (almeno in apparenza) e tornare indietro nel tempo catapultandosi in uno spazio indefinito, che non è né Oriente né Occidente, non parla né russo né americano. Semplicemente, non parla.
Per andare dal centro di Pest (la parte della capitale situata a est del Danubio) al Memento Park, il Parco delle Statue, ci sono due soluzioni. La prima è quella semplice, comoda: esiste un bus turistico che porta direttamente al parco e comprende anche la guida, ovviamente in inglese, e il ritorno dal nulla al centro occidentalizzato. La seconda è quella più interessante (e scomoda): usufruire dei mezzi pubblici, come il pullman 150, che collegano il distretto 5 (quello della Vaci utca, una sorta di Via Toledo ungherese) alla periferia “più periferica” di Budapest. Più precisamente, per recarsi al Memento Park, bisogna uscire dai confini della capitale. Il parco si trova infatti pochissimi metri fuori dai confini amministrativi di Budapest.
Il luogo che ci si appresta a visitare è già interessante di per sé, ma ciò che forse colpisce maggiormente è il tragitto. Dal centro di Pest al Parco delle Statue (che potrebbe tranquillamente prendere il nome di Parco del Silenzio) occorrono più di 40 minuti, tra metropolitane e pullman. Si tratta di oltrepassare il Danubio, superare Buda e percorrere circa 60 km di strada… e non è raro trovare addetti ai vari infopoint posti nelle piazze centrali che sconsigliano vivamente di allontanarsi così tanto.
In effetti, durante il viaggio, le emozioni si susseguono in maniera abbastanza veloce e confusa. Già a Kàlvin tér l’atmosfera cambia, e siamo a pochissimi chilometri dal centro. L’impressione è quella giusta: ci si sta mettendo alle spalle l’ordinato caos della Budapest per turisti per immergersi nella realtà della Budapest di tutti i giorni. Man mano che ci si allontana i rumori diminuiscono, le strade si allargano, le abitazioni e gli edifici sono sempre più radi e aumentano gli ettari di terra e vegetazione. Ma questo vale anche per il tragitto che porta alla Groupama Arena (lo stadio della squadra di calcio più titolata d’Ungheria, il Ferencvarosi TC) e per i vari centri commerciali della città. La nota positiva è che i trasporti funzionano alla perfezione. Anche laggiù, nonostante tutto, nessuno è abbandonato.
L’interesse del viaggio cresce maggiormente all’interno del pullman. Una volta fuori dalla metro, lo scenario che ci si trova di fronte è questo:
Le fermate dei vari bus sono circondate da palazzine, cantieri e desolazione. Il paesaggio che fa da cornice al viaggio della linea 150 racconta il passato e il presente non solo di Budapest, ma di tutta l’Ungheria. Come? Non dicendo nulla. Qui il silenzio cade in maniera pesante: tutto intorno terre e villette singole. Le persone che salgono sul mezzo hanno il viso e lo sguardo più stanco di quelle che si incontrano al centro e al conducente spetta il particolare compito di accompagnarle casa per casa, letteralmente. Ogni fermata, infatti, sembra corrispondere ad un esiguo numero di abitazioni e i pochi impavidi turisti che scelgono di recarsi al Memento Park in questo modo sono riconoscibili anche a chilometri di distanza rispetto alle persone che abitano in zona.
Il bus, prima di raggiungere la destinazione, esce solo per un attimo da Budapest per poi rientrare rapidamente, quasi come un delfino che salta in mare, giusto il tempo di farsi ammirare dai bagnanti per poi lasciarsi solo desiderare.
Per una volta, quello che si sente in giro e continuamente in tv non è banale o enfatizzato: a Budapest e in Ungheria le scorie del regime comunista si avvertono ancora. Questa volta, il luogo non ha bisogno di una guida, né in inglese né in nessun’altra lingua. L’atmosfera, più delle statue stesse, racconta già tutto. Il Memento Park è davvero un tuffo nel recente passato ungherese e, più in generale, sovietico. Mentre in altre città, alla caduta del regime, è stato deciso di abbattere e distruggere le varie statue, i monumenti e i manifesti comunisti che si ammassavano per le strade, a Budapest alcuni di questi sono stati raccolti e uniti in un’unica area posta per l’appunto di pochissimo fuori le porte della città.
L’ingresso è dominato dalle statue di Lenin, Marx e Engels, in bronzo e in granito. Sculture monumentali che fanno soltanto da prologo alle opere mastodontiche che si possono ammirare all’interno. Un tour per nostalgici o semplicemente per appassionati di storia contemporanea e curiosi che, fin da subito si trovano catapultati in una realtà che, come ha dimostrato il tragitto appena percorso, non è poi molto lontana. All’ingresso, la musica di propaganda avvolge il botteghino dei ticket e i souvenir di stampo sovietico. Si tratta di poster del regime, locandine, opere ironiche e cimeli autentici, come i passaporti usati nel periodo sovietico dagli abitanti dei paesi posti sotto l’influenza dell’URSS.
Con la musica che ancora echeggia nella testa, è un’altra statua di Lenin a dare il vero benvenuto al Memento Park, stavolta in bronzo e datata 1970. Poi, in sequenza, il busto e la statua di Georgi Dimitrov, le affascinanti opere dedicate a Béla Kun, i monumenti in onore dei soldati e dei compagni sovietici e – meritevole di particolare menzione – il Workers’ Movement Memorial di Kiss Istvan che, forse più di qualsiasi altra opera, invita a spunti e riflessioni. Nel mezzo la famosa statua ispirata ad un poster della rivoluzione del 1919, ‘The Republic of Council Movement’.
Al di là della visita, è possibile assistere anche ad un docufilm intitolato “La vita di un agente” che illustra i metodi usati dai servizi segreti sovietici. Una volta fuori, non resta che ripercorrere la strada a ritroso per tornare nella parte di Budapest che tutti i turisti hanno intenzione di visitare. Chilometro dopo chilometro le vie si restringono, gli edifici aumentano, gli occhi tornano a brillare delle luci che riflettono nel Danubio, il caos dei turisti sostituisce il silenzio della realtà, ma la visita al Memento Park – a dispetto di quanto suggeriscono alcune guide – cambia l’umore del visitatore occidentale.
Dal Parco delle Statue si torna con le orecchie che continuano ad ascoltare le note della Polyushka in lontananza e soprattutto con la consapevolezza che la vera Ungheria è quella che è stata appena visitata, col cuore in gola e lo sguardo attento: le parti di Buda e Pest che si affacciano sul fiume rappresentano una sorta di enclave turistico, una cartolina in continuo movimento che scorre, più del Danubio su cui sorge, a corrente alternata in due direzioni opposte: est e ovest che, in chissà quale ordine, corrispondono a passato e presente di una nazione che ci vuole raccontare contemporaneamente lo sfarzo del Castello e i timori della periferia.