[highlight]Gli eventi che influiscono sul costo dell’oro nero[/highlight]
Nel corso del 2014 il prezzo del petrolio si era dimezzato in soli sette mesi, passando dai 115 dollari al barile del giugno 2014 ai 46 dollari al barile del gennaio 2015. Da marzo in poi sembrava, invece, che la tendenza si fosse invertita, con l’aumento del prezzo salito fino ai circa 70 dollari al barile del giugno 2015. Da questo momento, tuttavia, il prezzo è sceso nuovamente fino ad arrivare al di sotto dei 45 dollari al barile. Le ragioni del brusco calo che non accenna a una battuta d’arresto sono da ricercare, tenuto conto di quelle del precedente calo, ancora una volta nel panorama economico e politico internazionale. Ogni nuovo avvenimento nel corso del tempo influisce, infatti, più o meno incisivamente sull’andamento anomalo del costo di questa materia prima.
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La Cina non importa
La Cina, uno dei maggiori Paesi importatori e consumatori di petrolio al mondo, è in preda a una crisi finanziaria provocata dal crollo della borsa cinese il cui valore è sceso del 30% tra giugno e luglio. Erano inevitabili le implicazioni negative che si sarebbero riscontrate nei vari settori dell’economia, tra i quali quello del consumo petrolifero. La domanda di petrolio da parte del Paese importatore è diminuita mentre la produzione nei Paesi esportatori è rimasta invariata, con un consequenziale ribasso del prezzo.
Produzione in eccesso
Piuttosto che restare invariata la produzione mondiale di oro nero è anzi aumentata. Quando, dunque, l’offerta aumenta la concorrenza tra i compratori diminuisce e aumenta quella tra i venditori, ragion per cui il prezzo scende per diventare più competitivo sul mercato. A regolare queste dinamiche sono Stati Uniti e Arabia Saudita, in lotta continua per l’egemonia petrolifera mondiale. La mossa strategica dell’Arabia Saudita, uno dei più grandi produttori di petrolio del mondo, è stata nel 2014 quella di aumentare la produzione di greggio e i livelli di esportazione per abbattere i prezzi e contrastare, così, l’espansione delle grandi società petrolifere statunitensi. Dal 2010, infatti, la tecnica del fracking, praticata mediante la trivellazione di rocce contenenti idrocarburi, consente agli Stati Uniti di estrarre dalle sabbie bituminose del North Dakota e del Texas una maggiore quantità di petrolio, lo shale oil. Dunque, per battere sul mercato il nuovo ma più costoso shale oil statunitense l’Arabia Saudita aveva aumentato l’offerta sul mercato forzando così, a domanda costante, un calo dei prezzi finalizzato a danneggiare le compagnie americane inducendole a rivedere i loro piani di espansione. Ecco perchè dopo essere effettivamente sceso notevolmente il prezzo fino a marzo 2014, aveva poi ricominciato a salire lentamente. Sembrava, infatti, che gli Stati uniti avessero davvero dato un freno alle trivellazioni, tanto discusse anche dal punto di vista ambientale. Invece poi le grandi compagnie statunitensi hanno ripreso i loro programmi di esplorazione petrolifera e rimesso in funzione diverse centinaia di trivelle con conseguente aumento dell’offerta e nuova discesa del prezzo. La guerra per contendersi il primato del settore petrolifero è dunque solo agli inizi e nessuna delle due potenze sembra arrendersi alle mosse dell’altra.
L’Iran scende in campo
Il terzo fattore alla base del nuovo calo del prezzo del petrolio ha a che fare con l’accordo raggiunto il mese scorso tra la comunità internazionale e l’Iran sul futuro del programma nucleare iraniano. L’accordo prevede, tra le altre cose, la rimozione parziale delle sanzioni economiche adottate da Usa e Ue come quelle imposte proprio alla compagnia petrolifera nazionale, oltre che alla Banca Centrale, alle compagnie aeree e di navigazione. Sarà, quindi, possibile riprendere la cooperazione economica con l’Iran in ogni campo, inclusi gli investimenti in petrolio e gas. Per questo l’Iran ha già aumentato la sua produzione di petrolio di circa 500.000 barili al giorno e nel giro di poche settimane potrebbe farla arrivare a circa 1 milione di barili in più al giorno, riportando la sua produzione ai livelli precedenti alle sanzioni sull’esportazione imposte nel 2012, quando l’Iran era il secondo produttore di petrolio dell’OPEC. Tutto questo farebbe incrementare ancora l’offerta di petrolio causando l’ulteriore diminuzione del prezzo. Il governo iraniano non è, tuttavia, preoccupato dal calo del prezzo del petrolio causato da un aumento della sua produzione, dato che confida nel raddoppiamento delle sue esportazioni con il mantenimento di guadagni costanti per lo stato.