[highlight]Presenza fissa in ogni poliziesco che si rispetti, il poligrafo si è rivelato poco affidabile.[/highlight]
Ottanta anni fa in un piccolo paese del Wisconsin nasceva uno strumento che se da noi non lascerà traccia, sarà capace di segnare indelebilmente la giustizia a stelle e strisce. Il Poligrafo, meglio conosciuto come “macchina della verità”, creato da un intuizione di Leonarde Keeler, misurando la pressione del sangue, il battito del polso e la respirazione di un individuo, poteva (o avrebbe potuto) stabilire se una persona stesse mentendo o dicendo la verità.
La macchina fu subito considerata rivoluzionaria, tanto da diventare prova fondamentale in molti casi di giustizia. Il suo “esordio” avvenne nel caso del tentato omicidio di un agente di polizia da parte di due uomini, Cecil Lioniello e Tony Grignano nel 1935. Il poligrafo risultò determinante, determinando la colpevolezza dei due indagati.
Ma la fortuna della macchina della verità durò ben poco: la Corte Suprema aveva infatti stabilito che questa non fosse attendibile e che quindi non potesse essere utilizzata all’interno di un dibattimento. Il reale problema stava nella possibilità di “ingannare” la macchina: spesso bastava infatti assumere farmaci, mordersi la lingua o stringere forte l’ano. Da allora il suo utilizzo è stato raro ed indirizzato non tanto a decretare la verità di una confessione, quanto più ad indurre il presunto colpevole a parlare. Nonostante tutto, dati conservati negli archivi americani stabiliscono che più del 60% dei criminali interrogati con l’ausilio della macchina della verità confessarono in seguito i loro crimini.
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Perché il poligrafo ha avuto vita breve
Keeler ebbe la grande intuizione di migliorare le forme rudimentali di poligrafo che già erano diffuse sin dall’ ‘800. Macchine che non funzionavano, che non erano in grado di dare risultati. Fu proprio su questo aspetto che si concentrò Keeler: cercare di realizzare uno strumento che potesse dare risultati che potessero essere utilizzati. Il successo iniziale portò la macchina ad entrare nel primo laboratorio di medicina legale americano, diventando l’ideale sostituto alle pratiche violenze troppo spesso utilizzati dalla polizia. Uno strumento che dimostrò subito la sua scarsa attendibilità, ma che diventava funzionale ad estorcere le confessioni delle persone indagate.
Una vera “arma psicologica” il cui impiego perdurò sino al 1980, quando il Congresso ne abolì l’impiego, definendola come strumento che “violenta” le menti e che spingeva attraverso lo stress la confessione.
Basta pensare al caso di Jeff Deskovic, risarcito di 40 milioni di dollari per una ingiusta condanna di stupro e omicidio. Il giovane, allora sedicenne, fu indotto attraverso lo stress indotto dal poligrafo a fare una falsa confessione, confessione che gli fece passare diversi anni in carcere. Non certo un caso isolato questo: sono infatti numerose le persone ingiustamente condannate sulla base della macchina della verità.
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Ma alla base dell’insuccesso del poligrafo sta il dubbio, quello stesso dubbio che mina il suo principio d’esistenza: lasciare, anche in minima parte, un grado d’incertezza. Quale sistema giudiziario può infatti affidarsi ad una macchina, di per sé sinonimo di efficienza, se non è in grado di garantire la certezza del risultato?
E sebbene l’Associazione americana del poligrafo ha sancito il 90% di accuratezza nello strumento, secondo l’Associazione americana degli psicologi la macchina della verità è e resterà sempre strumento da fiction.