[highlight]Il multi-intervento delle ONG per lo sviluppo autonomo dei Paesi del Terzo mondo[/highlight]
Se accingendovi alla lettura di questo articolo lo consideraste apriori scontato, per l’argomento che tratta, sareste giustificati. Quale discorso politico, quale talk show e persino quale messaggio delle miss non ha a cuore il problema della povertà nel mondo e ne auspica il superamento il prima possibile? Poi, però, nonostante l’attenzione dedicatale, la povertà persiste, nulla sembra cambiare ed è legittimo che prevalga la sfiducia. Ciò accade, probabilmente, perché molto più di rado si compie lo sforzo di inoltrarsi realmente nell’analisi delle origini e delle possibili vie d’uscita da un mondo dominato dalla disuguaglianza e dalla squilibrata distribuzione delle risorse. Tale sforzo è l’obiettivo di quanto segue.
I dati
Innanzi tutto, occorre riportare i più allarmanti tra i dati che attestano l’elevato tasso di povertà nel mondo.
► Su una popolazione mondiale di circa 7 miliardi, 3 miliardi di persone vivono con 2,5 dollari al giorno (1,8 euro).
► Nella cosiddetta “povertà estrema” rientrano 1,4 miliardi di persone, di cui il 75% sono donne, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno.
► Su 2,2 miliardi di bambini al mondo, quasi la metà, circa un miliardo, vive in povertà. Secondo quanto riportato dall’UNICEF, 22.000 bambini muoiono ogni giorno a causa dell’indigenza.
► I Paesi ricchi possiedono i tre quarti delle risorse naturali.
► Infine, il dato più inquietante, ma anche illuminante: le 300 persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza dei 3 miliardi dei più poveri.
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Nord e Sud del mondo: le origini
È possibile individuare la fase storica in cui la povertà, come la conosciamo oggi, ha cominciato a dilagare nel mondo. Se i poveri e ricchi sono sempre esistiti in ogni Paese, quella divisione del globo in nord e sud del mondo ha, invece, fatto la sua comparsa a partire dal XIX secolo.
Dalla metà del 1800, negli Stati europei si sviluppa una nuova tendenza in grado di sconvolgere il modo di intendere il mercato. Fino ad allora, ogni Stato europeo costituiva una singola entità economica, che intratteneva, con ciascuno degli altri stati, rapporti commerciali basati su uno scambio, generatore, ogni volta, data una quantità stabile di denaro in circolazione in Europa, dell’arricchimento dell’uno e del conseguente impoverimento dell’altro.
Si trattava di un gioco economico, che si svolgeva tra le mura di un mercato tutto europeo e finalizzato al mantenimento dell’equilibrio economico, al preservamento di una bilancia europea, nella quale nessun soggetto politico-economico dovesse prevaricare sull’altro. Eppure, ciò che si vuole evitare a partire dalla fine del XIX secolo è il configurarsi di rapporti ogni volta impari tra venditore e acquirente e i conflitti in cui questi meccanismi sfociavano.
Si afferma, così, il principio di uno sviluppo illimitato dell’Europa, intesa stavolta come entità economica nel suo insieme, attraverso l’accumulo progressivo di denaro proveniente dal di fuori. Si sviluppa il principio di un arricchimento permanente, ottenibile, necessariamente, mediante lo sfruttamento di nuovi mercati, provenienti dal resto del mondo.
In altri termini: l’Europa diventa l’unico giocatore in campo, il resto del mondo non è altro che la sua posta in gioco.
Ecco che il processo di mondializzazione del mercato, o come diremmo oggi, di globalizzazione, va ricercato indietro nel tempo, in quel tempo in cui per garantire la prosperità economica di tutti i singoli Stati europei, nonché l’assenza di conflitti dovuti a istanze principalmente economiche, si rende necessario lo sfruttamento delle risorse a livello mondiale, attraverso una liberalizzazione del mercato come garanzia della “pace perpetua” e un vantaggio tutto europeo.
Le cose sono andate, come sappiamo, diversamente: i conflitti più sanguinosi hanno dilaniato il mondo intero proprio nell’arco del secolo successivo e le regole del gioco imposte dai ricchi giocatori hanno condotto alla costituzione del Terzo mondo, espropriato delle proprie risorse naturali, mancante di uno sviluppo autonomo e soprattutto privato della propria potenza creativa.
Le ONG e la fine della povertà
Per far fronte a tutto questo, quella stessa globalizzazione, sorta con l’intento di dominare il mondo, ha prodotto, negli ultimi decenni, degli effetti inaspettatamente opposti e positivi, riconducibili alla formazione di organizzazioni non governative (ONG), nate con l’intento di salvare, piuttosto, il mondo, promuovendo lo sviluppo delle aree economicamente e politicamente arretrate, in nome una globalizzazione che sia degna di questo nome.
Due sono, in particolare, le caratteristiche delle ONG dalle quali si può dedurre un tipo di intervento opposto rispetto a quello dei primi promotori della mondializzazione: sono organizzazioni indipendenti dai governi e dalle loro politiche e, generalmente, non hanno fini di lucro (non profit). Si tratta, dunque, di dispositivi fondati sulla cooperazione e l’interazione tra attori statuali e non statuali, e che agiscono al di sopra e spesso nonostante le decisioni delle unità statuali, dal momento che intrattengono, con queste ultime, delle relazioni, talvolta, antagonistiche.
In altri termini, di ciò che la molteplicità degli Stati ricchi non riesce e forse non vuole, in quanto non nel proprio interesse, fronteggiare, se ne occupano organizzazioni spinte, al contrario, da un forte impulso ideale, non intaccatate dalla logica perversa del mercato, come attestato dal fatto che una parte significativa degli introiti provengono da fonti private sottoforma per lo più di donazioni.
Il carattere fortemente innovativo di alcune tra le ONG più importanti a livello globale, è offerto da una modalità di intervento che prevede non solo il classico trasferimento di denaro, secondo la logica del togliere ai ricchi per dare ai poveri, ma soprattutto la valorizzazione delle risorse umane.
Promuovendo uno sviluppo, prima ancora che economico, umano e sociale, BRAC (Bangladesh Rural Advancement Commitee), attualmente la più grande ONG al mondo,sta adottando, ad esempio, una modalità di multi-intervento, che agisce non solo mediante il trasporto di ricchezze, ma attraverso la produzione autonoma di ricchezze, operando in settori quali istruzione, sanità, riduzione dei rischi derivanti dai cambiamenti climatici.
È la teoria americana del capitale umano che viene applicata alle singole individualità del Bangladesh. Si tratta di un intervento sulla popolazione e sulle condizioni che determinano alla base il conseguente sviluppo di un mercato concorrenziale interno e poi esterno. Questo tipo di approccio consente, innanzitutto, processi di soggettivazione finalizzati alla costruzione di individui provvisti della formazione necessaria per la conseguente messa in pratica delle competenze acquisite, dunque del proprio capitale umano da investire in cambio di un reddito.
A essere sottoposto a un vero e proprio costante monitoraggio finalizzato a tutto questo è, ad esempio, il gruppo dei lavoratori dell’industria tessile di Dacca e dintorni. Se la Banca Mondiale ha fiduciosamente affermato che la povertà sarà debellata definitivamente nel 2030, per il momento BRAC ha dimostrato che la stragrande maggioranza dei partecipanti al suo progetto, circa l’80%, lascia la categoria di ultra-povertà entro 24 mesi e mantiene un percorso in salita anche fino a quattro anni dopo aver ricevuto i benefici iniziali.
Non ci si limita all’atteggiamento umanitario e filantropo, a cui siamo abituati, e, inoltre, allo sfruttamento delle risorse altrui a proprio vantaggio si sostituisce lo sfruttamento del potere creativo altrui a vantaggio dei diretti interessati.
La scomparsa del Terzo mondo coinciderebbe con la scomparsa della povertà in generale?
La risposta è no. E la cosa ci riguarda più da vicino. Trovare un modo per sconfiggere la povertà nel mondo non è la stessa cosa che combattere le disuguaglianze sociali ed economiche presenti in ogni Paese, anche in quelli più avanzati. Le due cose non coincidono.
Seppure, infatti, il Terzo mondo venisse finalmente inglobato all’interno del mercato mondiale, questo implicherebbe semplicemente che anche questi Paesi comincerebbero a fondarsi sulla stessa logica su cui si fondano tutti gli altri Stati: la logica della concorrenza come motore del mercato interno ed estero.
Ma che cos’è la concorrenza? Semplificando, la si può definire come un rapporto ineguale, che non produce, cioè, equivalenza tra i soggetti economici, ma ineguaglianza. Ecco come si spiega l’esistenza e, in questo clima di crisi generale si può affermare l’incremento, della povertà anche nei Paesi ricchi. D’altronde, continuando a riflettere sul concetto dell’ineguaglianza, quest’ultima è persino necessaria e non solo possibile in un economia bastata sulla concorrenza. L’ineguaglianza tra i soggetti economici deve necessariamente sussistere, pena il cattivo funzionamento del mercato.
Ne consegue, la comprensione delle modalità di intervento dei governi, in particolare, delle attuali democrazie neoliberali occidentali, le quali provvedono, semmai, al mantenimento e alla gestione delle differenze in campo, piuttosto che al loro superamento.
Per capire meglio la questione, basta partire dal concreto e, dunque, dallo stile di governo attuato soprattutto in Europa, in questa fase di emergenza: i governi non sono orientati al raggiungimento del pieno impiego, alla creazione di posti di lavoro, o al trasferimento di redditi, quanto piuttosto alla politica dell’austerity, al contenimento dei costi, il quale, soltanto come obiettivo secondario, tuttavia non necessario, può produrre la diminuzione della disoccupazione e l’aumento della capacità d’acquisto.
Ciò che viene combattuto non è la povertà assoluta, intesa come soppressione delle differenze di reddito, ma la povertà relativa, intesa come tutela, attraverso sostegni assistenziali, soltanto di coloro che non possono autonomamente provvedere a se stessi, come i disoccupati, i pensionati o gli invaliti, in modo da non permettere l’esclusione definitiva di nessuno dal gioco economico mondiale
Tutto questo è solo un modo per cominciare a concentrarsi non solo sugli effetti della povertà, aiutando chi ne ha bisogno e soltanto nel momento in cui ne ha bisogno, ma sulle cause della povertà stessa, sul meccanismo della produzione dal quale deriva.