[highlight]Il Napoli Teatro festival ospita il 19 e 20 giugno l’adattamento dell’opera di Anton Cechov con la regia di Gianluca Merolli[/highlight]
Il Napoli Teatro festival Italia quest’anno ha dato spazio ad un giovane artista come Gianluca Merolli, che per la prima volta veste i panni del regista nell’opera “Un Gabbiano” di Anton Checov, messo in scena al Teatro Sannazaro di Napoli il 19 e 20 giugno, grazie alla produzione di Andrea Schiavo. Anche se molto giovane, Merolli ha alle spalle una carriera spettacolare, alternando musica, cinema e teatro; recente la sua interpretazione del terribile cugino di Giulietta, Tebaldo, nell’opera Romeo e Giulietta – ama e cambia il mondo di David Zard.
UN GABBIANO
In questo riadattamento, innovativo e unico, è narrata la parabola della morte, dove il suicidio non è visto come un addio alla vita, ma come il donare questa per un’idea. La forza del suicidio e la poetica dei disperati è stata raccontata dai personaggi checoviani, come un viaggio che ha inizio nella Kiev del 1896 fino a giungere nel punto più oscuro e nascosto di loro stessi.
Tutto ha inizio proprio da lì, dal suicidio di Kostantin Trepliov. I sette protagonisti con i loro sette fantocci sono in scena, impolverati e logori, e si raccontano tramite dei simboli esistenziali, che ondeggiano nel limbo che divide la vita dalla morte. Le storie di Kostja, Irina, Nina, Mascia, Medvedenko, Trigorin e Sorin sono concatenate tra loro.
IN SCENA
Il palco è sempre occupato da tutti i personaggi; anche quando a raccontarsi non sono loro,
vagano per la scena in atteggiamenti che si ripetono frequentemente, come a voler urlare “io ci sono e mi miglioro”. Alla base della loro solitudine, della frustrazione, dell’insoddisfazione, c’è l’amore non corrisposto: Medvedenko ama Mascia, che a sua volta ama Kostja, che è innamorato di Nina, che è invaghita di Trigorin, che vive per la sua professione, la poesia.
È proprio questo il loro punto d’incontro, nella solitudine le loro anime si uniscono e danno luogo
La vicenda percorre la stessa strada tracciata da Checov, ma qualsiasi aspetto, qualsiasi particolare è ricalcato ed enfatizzato in chiave moderna i personaggi talvolta danzano, talvolta cantano, spezzando e distaccandosi dalla solennità dramma descritto nel 1896 e catapultando così gli spettatori di nuovo nel 2014.al teatro, unendo le loro forze divengono attori. Teatro della morte dunque. Teatro di morte. Morti di teatro.
SETTE ANIME E SETTE FANTOCCI
Le sofferenze degli attori sono palpabili,vive. Kostja, interpretato dalla stesso Gianluca
Merolli, rispecchia al meglio la fragilità e l’insicurezza del giovane scrittore di teatro, che viene continuamente denigrato dalla madre Arkàdina ed è frustrato per l’ amore non corrisposto da Nina, che casca tra le braccia del bel Trigorin, compagno di Irina, con il quale il giovane protagonista evita qualsiasi confronto, in quanto invidioso della sua bravura nello scrivere.
Irina Arkàdina, Anita Bartolucci, è una vecchia attrice che vive gli ultimi anni che le rimangono nelle rimembranze dei suoi successi trascorsi.
Mascia, Giulia Maulucci, è il personaggio più coinvolgente e intenso di tutta la rappresentazione; la sua misera e insolente vita è trasmessa a 360 gradi durante tutto il tempo, anche nel momento in cui dovrebbe essere relativamente serena, dato che si e maritata con il suo maestro Medvendenko, il suo rancore, verso quella vita che non ha potuto avere, le si legge negli occhi.
Nina, Francesca Golia, incarna decisamente bene la ragazzetta, che si appresta a vivere nel mondo dello spettacolo, dal quale pero poi restera scottata
Trigorin, Enrico Roccaforte, intellettuale e fisicamente prestante, raffigura così la sua sicurezza e la forza che utilizza nel suo lavoro, nello scrivere le sue poesie.mondo dello spettacolo, dal quale però poi resterà scottata.
Medvendenko, interpretato da Fabio Pasquini, è un personaggio vuoto e incerto, insicuro, che vive nell’ombra del suo amore per Mascia.
Infine c’è Sorin, Nello Mascia, proprietario dell tenuta luogo in cui è ambientata la vicenda, il quale manovra da dietro le quinte la vita di tutti quelli che lo circondano e tiene cosi i fili dei suoi burattini, orchestrando a suo piacimento la tragedia.
Ognuno di loro possiede un fantoccio, che di tanto in tanto vengono mostrati al pubblico; tali sono l emblema della pochezza delle loro vite, dell’ inconsistenza delle loro vite, del vuoto nella loro vita.
IL GABBIANO
Uno di questi fantocci è il Gabbiano simbolo chiave dell’ intero dramma, un punto di forza della vicenda, il fulcro attorno cui gira tutto. Il gabbiano/fantoccio è quasi sempre presente sul palco ed è li a rappresentare l’attimo che si interpone fra la vita e la morte, quel lembo straziante ed eterno di vita, che ci conduce alla fine dei nostri giorni.
Sul concludersi della rappresentazione Nina, in un ultimo testa a testa con Kostja, grida «io sono il gabbiano» e Kostja la controbatte affermando «io sono il gabbiano», ma lei si oppone urlano «No!», rivendicando in tal modo la sua straziante vita, che non può essere paragonata a quella insolente e insoddisfatta di Kostja.
Tutti noi siamo gabbiani, tutti noi abbiamo vissuto o vivremo attimi di solitudine, di sofferenza, di frustrazione, che non ci hanno consentito o non ci consentiranno di vivere al meglio le emozioni e le sensazione che la vita ci dona.
Il messaggio di Gianluca Merolli è proprio questo, e lo ha messo in scena nel migliore dei modi, non solo incarnando la perfetta rappresentazione dell’opera immaginata da Anton Checov nel 1896, ma anche catapultando l’intero teatro nella Kiev del 2014, afflitta dalla sanguinosa guerra civile.