Ma quale Venezia! È Siracusa la capitale del romanticismo

[highlight]Tra realtà e mito, l’isola di Ortigia conserva ancora oggi i segni di una storia d’amore leggendaria, trasformando la bella Siracusa in un luogo incantato, suggestivo e romantico[/highlight]

[quote]Avete spesso sentito dire che Siracusa è la più grande città greca, e la più bella di tutte. Signori giudici, è proprio come dicono[/quote]

Così Marco Tullio Cicerone descrive Siracusa, piccola città della Sicilia orientale. Una città dal passato importante, colonia del mondo greco, ricca di bellezze che le sono giustamente valse il titolo di Patrimonio dell’umanità, conferitole dall’UNESCO nel 2005.

Turismo a Siracusa

Siracusa

Un enorme patrimonio storico-artistico e paesaggistico rendono Siracusa una delle mete turistiche più ricercate in Italia, in particolare nel periodo estivo, quando orde di turisti si riversano sulle sue bellissime spiagge per godere delle acque limpide del suo mare.

Non tutti sanno, però, che Siracusa non è solo monumenti, mare, sole e ottimo cibo, ma è anche il luogo perfetto per una vacanza all’insegna del romanticismo, molto più di città più inflazionate come Venezia, o Parigi.

A farle guadagnare il titolo di città romantica per eccellenza è un’antica leggenda risalente alla mitologia greca, le cui tracce sono ancora evidenti nell’isola di Ortigia. Piccolo capolavoro di storia e architettura, Ortigia rappresenta la parte più antica di Siracusa, una piccolissima isola collegata al resto della città attraverso un ponte.

Passeggiare mano nella mano con la persona amata per le vie di Ortigia, sedersi su una panchina ad ammirare la luna riflessa nel mare nei pressi del porticciolo è già di per se un’esperienza romantica da vivere e ricordare. A rendere il luogo ancora più suggestivo, però, c’è la leggenda di Aretusa, che da il nome alla Fonte omonima, situata al centro di Ortigia, che sfocia nel porto grande di Siracusa.

La leggenda di Aretusa

Fonte Aretusa Ortigia Siracusa

Aretusa è un personaggio della mitologia greca, una ninfa di straordinaria bellezza, figlia di Nereo e di Doride. Di lei si innamorò follemente Alfeo, figlio del dio Oceano, vedendola mentre faceva il bagno nuda in una fonte. L’amore di Alfeo, però, non fu ricambiato dalla bella Aretusa, che per fuggire alla sue attenzioni si recò proprio sull’isola di Ortigia. Qui, la dea Artemide la soccorse tramutandola in una fonte. Il dolore per Alfeo fu enorme, al punto da suscitare la commozione e la compassione di Zeus, il sovrano dell’Olimpo, che decise di mutarlo in un fiume.  Fu così che ebbe inizio il viaggio di Alfeo, che percorse tutto il Mar Ionio per raggiungere Otigia e unirsi alla sua amata fonte, Aretusa.

Un amore sincero non corrisposto, come nella grande tradizione drammaturgica, e un lieto fine degno della migliore delle favole Disney. Una leggenda che ha ispirato poeti e scrittori nei secoli, da Ovidio a Salvatore Quasimodo.

Suoi i seguenti versi:

«Io fui – disse – una delle ninfe achee
e più di me nessuna amava andare per i boschi
e fu più avida nel tendere le reti. Non chiedevo
fama alla bellezza. ero forte, ma pure si diceva
ch’ero bella. Non amavo la lode alla bellezza,
anzi mi vergognavo del mio corpo,
di questo dono selvatico, gioia per le altre,
e se piacevo sentivo grave colpa.
Tornavo stanca, ricordo, dalla selva di Stìnfalo,
era d’estate, e grave fatica cresceva la calura.
E vidi un ruscello che scorreva tacito,
senza gorghi, limpido sino al fondo, tanto
che ogni piccola pietra poteva contarsi dall’alto,
tale che avresti detto queh’acqua senza moto.
Bianchi salici e pioppi nutriti dall’acqua
spargevano docili l’ombra sulle rive in declivio:
m’avvicina e mi bagno prima le piante dei piedi,
e poi fino al ginocchio; ma ancora non ero contenta,
e slaccio le vesti leggere e le appendo ad un salice,
e nuda mi tuffo nell’acqua. E mentre taglio le onde
e a me le riporto, scorrendo ora in qua ora in là
e agito le braccia, odo non so qual rumore
salire dal fondo; e impaurita mi fermo alla sponda vicina.
“Dove vai cosi in fretta, o Aretusa?”
grida l’Alfeo di sotto le acque, “dove vai cosí in fretta?”
ripete con rauca voce. E io fuggo nuda, com’ero
(all’altra riva erano le vesti). E più egli m’insegue
e arde d’amore: nuda gli sembro più pronta.
Correvo come colomba che fugge lo sparviero
con ali tremanti; senza pietà m’inseguiva,
come sparviero preme su trepida colomba.
Fino a Orcomeno, a Psòfide, le forze mi sostennero,
fino a Cillene, alle curve del Menalo, al gelido
Erimanto, nell’Elide; ma ero più veloce d’Alfeo.
Ma non potevo resistere a lungo alla corsa,
le mie forze non erano uguali alle sue;
egli non piegava alla fatica. Ma corsi ancora
per campi, per monti di selve, per rocce,
per dirupi dove non c’era un sentiero.
E il sole m’era alle spalle; e vidi un’ombra
lunga davanti a me, se pure non era il timore
a crearla. Ma davvero a quel rumore di passi
tremavo di paura e già quell’alito forte
m’agitava le bende ai capelli. E sfinita gridai:
“Sono perduta, o Diana, soccorri la tua Aretusa
a cui affidasti sovente e l’arco e la faretra
con le frecce.” Ebbe pietà la dea e in una densa nube
mi chiuse. E il fiume, girando per la vana nebbia
che mi copriva, cercò dentro la nube; e due volte,
ignaro, passò dal luogo dove la dea m’avvolse,
e due volte chiamò a gran voce: “Aretusa! Aretusa!”
Che cuore io avevo, o infelice! Non era d’agnello
quando sente i lupi fremere intorno all’ovile,
o di lepre nascosta nella macchia, se scorge
il muso nemico dei cani e non osa un piccolo moto?
Ma là rimase Alfeo perché non vide più oltre
un’orma del mio piede, e fissava la nube.
E gelido sudore intanto copre le mie membra,
e da tutto il mio corpo stiuano cellule gocce,
e dovunque io vada, ecco uno scorrere d’acqua,
e dai capelli scende rugiada; e in breve tempo,
più breve di quello che occorre per narrare,
Alfeo ritorna fiume per unirsi alle mie acque.
E Diana apri la terra, ed io, profonda, per oscure
grotte vengo in Ortigia, che al mio nome divino
fu grata, portandomi alla luce del cielo.

E qui tacque Aretusa. Aggioga Cerere allora
due serpi al suo carro e col morso ne frena la bocca
e viene levata per l’aria fra il cielo e la terra.
E subito verso Tritonia guida il carro leggero,
e là lo consegna a Trittòlemo; e impone che parte
dei semi già avuti si sparga su vergine terra
e parte in quella arata dopo lungo riposo.
Sopra le terre d’Asia e d’Europa era passato
altissimo il giovane in volo e calava nella Scizia,
dove Linco era re. Trittòlemo entrò nella reggia,
e Linco gli chiese di dove veniva, e perché, a quelle rive,
e il nome e la sua patria. E il giovane rispose-
«La mia patria è Atene, il mio nome è Trittòlemo.
Non giunsi qui su nave, né a piedi sulla terra;
l’aria mi apri la strada. Porto i doni di Cerere,
che, sparsi per i campi, daranno messi feconde
e il dolce nutrimento.» Nasce invidia al barbaro
e pensa di fare egli stesso quel dono cosi grande,
ed accoglie Trittòlemo. E quando l’ospite dorme,
l’assale con la spada e tenta di colpirlo al petto.
Ma lo muta Cerere in linee e ordina a Trittòlemo
di guidare per l’aria i sacri serpenti aggiogati.»

Ogni innamorato, almeno una volta nella vita, dovrebbe specchiarsi nella Fonte Aretusa, perché in quelle acque c’è il riflesso di un amore che ha sfidato gli dei per poter essere vissuto in pieno. 

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