[highlight]Sport e razzismo si intrecciano ancora dopo i casi di Dani Alves e le dichiarazioni di Sterling nella Nba[/highlight]
Lo sport dovrebbe essere il maggior veicolo di valori positivi, dovrebbe unire popoli, persone e pensieri diversi in un unico spirito libero da ogni discriminazione ma sempre più spesso si intreccia con ignoranza, violenza e razzismo.
Gli ultimi avvenimenti mostrano che la crisi attuale, non solo economica, ma soprattutto culturale e ideale, abbia riflessi in tutti gli aspetti della vita sociale che trovano poi ampio risalto nello sport.
Non bisogna andare troppo indietro per ricordare gli ultimi esempi di razzismo sportivo e come al solito il calcio diventa la cassa di risonanza maggiore per questi avvenimenti.
Siamo tutti scimmie – Il lancio della banana a Dani Alves, giocatore del Barcellona, nell’incontro di campionato contro il Villareal è solo l’ultimo e più noto di questi avvenimenti. Il gesto che ha avuto grande risalto per la pronta risposta del giocatore che ha raccolto la banana e l’ha mangiata, non è nuovo in Spagna. Infatti, sebbene con altri “oggetti”, non si può non ricordare la testa di maiale lanciata a Figo in un Barcellona- Real Madrid d’annata dopo il passaggio del portoghese ai “blancos”.
https://www.youtube.com/watch?v=OMXdzGl_hXc
Tutto questo ha subito scatenato in rete una campagna mediatica contro il razzismo sulla scia dell’Hashtag #SomostodosMacacos (siamo tutti scimmie, nda) poi tradotto in varie lingue, con vari messaggi con tanto di foto con una banana di personaggi noti dello sport (ma non solo).
Il gesto eclatante ha fatto il giro del mondo e ha rimesso in primo piano la problematica del razzismo.
Per quanto riguarda l’autore del gesto deprecabile, la polizia spagnola è intervenuta subito per identificare il colpevole del lancio di banana. Il suo nome è David Campayo che è stato subito espulso dal club e bandito a vita dal Madrigal. Inoltre per lui è scattato addirittura l’arresto, in base alla violazione dell’articolo 510.1 del codice penale spagnolo che condanna discriminazione, odio o violenza.
Razzismo in Nba – Non solo il calcio deve affrontare il razzismo ma anche la Nba, lega di basket più famosa al mondo, nel periodo più teso dei playoff. Se nel calcio lo slogan è “siamo tutti scimmie” nel basket americano invece è “We are one” con tanto di video per enfatizzare l’idea di unità e di famiglia della lega contro il razzismo.
Sotto accusa c’è Donald Sterling, proprietario dei Los Angeles Clippers, e le sue dichiarazioni razziste durante una telefonata con la sua fidanzata V. Stiviano.
Nella telefonata (intercettata illegalmente da Tmz) il proprietario dei Clippers criticava la ragazza per alcune foto, pubblicate su Instagram, accanto a persone di colore, fra cui l’ex stella dei Lakers Magic Johnson.
[quote]Mi dà molto fastidio il fatto che uno sia obbligato a far vedere al mondo di essere in buoni rapporti con i neri..bisogna farlo per forza?! – Puoi dormire con i neri. Puoi uscire con loro, puoi farci quello che vuoi. L’unica cosa che ti chiedo è di non promuovere la cosa e soprattutto di non portarli alle mie partite! Non postare foto di Magic su Instagram e soprattutto non portarlo alle mie partite[/quote]
Per Sterling non si tratta della prima accusa di razzismo, infatti, nel 2005 mise fine con un patteggiamento a un’azione legale in cui era accusato di discriminare i neri e gli ispanici inquilini delle sue innumerevoli proprietà e nel 2009 fu costretto a versare 2,7 milioni di dollari nell’ambito di un’altra causa per discriminazione.
Il caso ha creato grande clamore e grandi proteste da buona parte dei giocatori per lo più afroamericani. Tra gli altri, i giocatori della squadra di Sterling hanno deciso simbolicamente di svestirsi dei colori dei Clippers durante il riscaldamento, mentre tanti hanno lanciato messaggi di protesta.
.@cjbycookie and I will never go to a Clippers game again as long as Donald Sterling is the owner.
— Earvin Magic Johnson (@MagicJohnson) 26 Aprile 2014
I couldn’t play for him
— Kobe Bryant (@kobebryant) 26 Aprile 2014
La risposta del Commissioner Nba Adam Silver non si è fatta attendere. Sterling è stato multato di due milioni e mezzo di dollari ed è stato squalificato a vita dalla Lega, in più la Nba si muoverà per costringerlo a vendere ad altri proprietari la franchigia.
La risposta della lega americana è sembrata molto netta anche se lascia grandi dubbi il fatto che si sia tollerata fino a ora la presenza di un personaggio da anni chiaramente razzista come Sterling senza fare nulla.
Razzismo o marketing? – In entrambi i casi, gli interessi commerciali appaiono sempre predominanti.
La Nba non può permettersi che gesti del genere possano macchiare il brand che negli anni sta cercando sempre di più di aprirsi all’estero.
Mentre il gesto di Alves, sebbene nelle intenzioni voglia rimettere al centro della discussione il razzismo, sembrerebbe nascondere una mossa di marketing suggerita dall’entourage del giocatore. Nonostante questo, mettere al centro della polemica la pubblicità che un noto marchio di abbigliamento brasiliano ha sfruttato in Brasile con il lancio di una maglietta con l’hashtag #somostodosmacacos e l’immagine di una banana a 25 euro, significa non centrare bene il problema correndo il rischio di far la fine degli stolti, come recita un vecchio proverbio, che quando il saggio indica la luna loro guardano il dito.
Infatti, come afferma anche Guga Ketzer dell’agenzia Loducca che si è occupata delle operazioni di marketing in Brasile:
[quote]Il modo migliore per contrastare i pregiudizi è togliere loro forza per fare in modo che il gesto razzista non si ripeta. [/quote]
Bisogna però sottolineare che gesti simbolici e foto su twitter non sono sufficienti per vincere contro il razzismo, anche se aiutano alcuni personaggi a migliorare la propria immagine.
La lotta contro questo odioso “cancro” richiede un vero e proprio cambio di mentalità.
Contro il razzismo si vince se si inverte la recente tendenza culturale e ideologica all’esclusione, alla divisione che ha grande successo anche in Italia che spinge a credere che dividersi e chiudersi in confini sempre più ristretti (sia mentali che reali) possa essere la vera soluzione alla crisi.