[highlight]Quasi un giovane su due risulta disoccupato secondo le stime dell’Istat. Non solo crisi economica: un sistema scolastico inefficace e un approccio alla ricerca del lavoro inadeguato completano il quadro[/highlight]
I dati diffusi dall’Istat sulla disoccupazione in Italia sono impressionanti, anche se per niente sorprendenti. È evidente a tutti, e non solo agli analisti del settore, che il trend è negativo ormai da anni, e niente fa pensare ad un miglioramento nel breve o brevissimo periodo.
Quasi un giovane su due risulta disoccupato, e le possibilità di trovare un lavoro sembrano essere sempre meno.
L’incertezza e la precarietà rappresentano ormai una costante nella vita di chi entra oggi nel mercato del lavoro, ma come in ogni cosa ci sono sempre i due lati della medaglia. Se da una parte è innegabile la congiuntura economica non favorevole per le piccole e medie imprese, quelle cioè che storicamente creano occupazione in Italia, è anche vero che il modo in cui si approccia la ricerca di un’occupazione è spesso inadeguato.
Istituti tecnico/professionali incapaci di formare giovani skillati, corsi di laurea distanti anni luce dal mercato del lavoro e basati sull’accumulo di conoscenze anziché di competenze, enti di formazione professionale buoni solo a stampare attestati, orientamento in uscita pressoché inesistente e improduttivo, stereotipi e luoghi comuni difficile da sradicare, in particolare nelle famiglie del Sud Italia, sono tutti elementi da non sottovalutare quando si fa un discorso organico sulla situazione italiana.
L’idea che iscriversi all’università rappresenti una soluzione al problema occupazione è non solo anacronistica, ma anche stupida. Scegliere il percorso di studi senza tener conto delle esigenze delle aziende operanti nella propria regione, o in generale nel Paese, è controproducente. Concentrare le proprie forze e risorse esclusivamente sullo studio non può produrre altro che forza lavoro impreparata a qualsiasi tipo di occupazione. Limitarsi a inviare curricula a destra e manca, indipendentemente dal tipo di profilo ricercato, è assolutamente inutile, e finisce con il generare un forte senso di avvilimento.
Uno dei (tanti!) deficit del sistema scolastico del nostro Paese è il mancato insegnamento della redazione di un curriculum, ed è inaccettabile se si pensa che il ruolo delle scuole dovrebbe essere quello di fungere da ponte tra la formazione e il lavoro.
Da qualche anno è diffuso e consigliato l’utilizzo del formato europeo per il curriculum vitae, che ha alcuni aspetti positivi e altri, invece, negativi. Sono da considerare positivi la formattazione pulita e lineare, la distribuzione cronologica delle esperienze di lavoro e formazione, sezioni dedicate a competenze specifiche e la facilità di lettura da parte del reclutatore. Tra i contro, invece, l’omologazione e la standardizzazione che comportano una forte spersonalizzazione del candidato, eccessiva attenzione ai titoli invece che alle competenze specifiche, un insieme di frasi fatte e slogan molto poco indicativi della vera personalità del giovane (o meno giovane) che si sta proponendo per quel particolare posto di lavoro.
I principali consigli che gli esperti di risorse umane danno spesso a chi cerca un’occupazione sono molto efficaci, anche se all’apparenza banali: proporsi solo per profili realmente corrispondenti alle proprie competenze; personalizzare il CV in base al profilo ricercato, all’azienda, al settore; scrivere una lettera di presentazione sintetica e efficace, che spinga il selezionatore a interessarsi alla propria candidatura; allegare sempre una foto adatta allo scopo; utilizzare una email del tipo nomecognome@nomesito.it (anche con punti, abbreviazioni, ecc) e mai una tipo patatina90@msn.it; produrre oltre al Cv in formato europeo anche un resume in stile anglosassone, personalizzandolo graficamente; verificare l’esistenza di una ricerca di personale trovata in rete, magari contattando direttamente l’azienda.
Sono solo dei piccoli consigli ma essenziali, in particolare in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo. Se alla mancanza di opportunità si aggiunge l’incapacità di cogliere le poche che si presentano, non se ne esce più.