[highlight]A pochi giorni dalla sua elezione a segretario del partito democratico, il sindaco di Firenze deve fare i conti con posizioni conservatrici profondamente radicate nella sinistra italiana[/highlight]
Ha avuto un successo travolgente alla primarie, e fa bene a rivendicarlo. Rappresenta una nuova idea di politica, e giustamente lo fa notare ai cronisti che lo associano a Letta e Alfano per questioni meramente anagrafiche. Ha ottenuto un mandato popolare importante, che lo rende diverso dagli altri leader di partito, sia di destra che di sinistra, ma anche rispetto al M5S che è stato costruito – come nello spot di una nota banca – intorno al suo Guru.
Lanciatissimo nella sua opera di “tallonamento” al governo, Matteo Renzi deve fare i conti con la vecchia guardia del suo partito per sperare di poter veramente trasformare in realtà il desiderio di cambiamento espresso dagli elettori del PD.
La rottamazione da lui “teorizzata” e messa in pratica con la vittoria alle primarie è stata, fino ad ora, solo accennata. Non basta cambiare i membri del consiglio direttivo del partito per pensare di aver fatto una rivoluzione, perché quella è solo la punta dell’iceberg. Non ci sarà più D’Alema o la Finocchiaro, ma resta il radicamento nelle realtà locali e nella burocrazia, e soprattutto una vecchia idea di gestione della cosa pubblica che va sradicata con forza, senza se e senza ma.
I problemi principali del nostro Paese, come tutti i politici amano ricordare, sono essenzialmente due: l’occupazione e il debito pubblico.
Per cercare di “cambiare verso”, come recita lo slogan della sua campagna alle primarie, è necessario scontrarsi proprio con i due nemici del progressismo in Italia, ovvero burocrazia e sindacati.
Affrontare questo “mostro” a due teste rappresenta, forse, la sfida più difficile per il rampante toscano, considerato che sull’economia e sulla gestione dello Stato ha idee molto più vicine al liberismo sociale di derivazione blairiana che alla scuola socialista europea. E si sa che in Italia il termine “liberale” è associato immediatamente a partiti e/o movimenti di destra.
Nel suo programma si prendono a modello alcune idee – su economia e occupazione – che difficilmente verranno accettate dal principale sindacato di riferimento del centro-sinistra, ovvero la CGIL, che infatti ha già bocciato la sua proposta del “contratto unico” per i neo assunti, in difesa di un tutt’altro che perfetto Articolo 18.
Uno dei tormentoni di Renzi è «il governo per durare deve fare», magistralmente ripreso da Maurizio Crozza. Il problema è capire fare cosa, perché le politiche fin qui attuate dall’esecutivo guidato da Enrico Letta in materia di occupazione lasciano il tempo che trovano, per non parlare della razionalizzazione dei costi dello Stato, rimandata a tempo indeterminato, in attesa del rapporto dell’ennesimo esperto di spending review.
Se Renzi intende, come ama ripetere, rispondere delle sue azioni ai quasi tre milioni di elettori che si sono recati nei circoli PD lo scorso 8 dicembre, è necessario che capisca contro cosa lottare, e non contro chi.
Perché altrimenti, come recita un famoso proverbio, qui cambierà l’orchestra ma la musica sarà sempre la stessa.