Fracking e shale gas non più così lontani

[highlight]Il Fracking ha rilanciato l’economia americana, ora tocca all’Europa?[/highlight]


L’apertura del premier Letta nei confronti del fracking, una particolare tecnica di estrazione (letteralmente, “fratturazione idraulica”), ha fatto tremare ambientalisti e scienziati italiani, provocando allarme e il proliferare di movimenti contrari a questa ipotesi.

Il presidente del Consiglio si è detto favorevole all’utilizzo di shale gas (vale a dire, quello intrappolato nelle rocce) in Europa, aprendo un dibattito nell’opinione pubblica su un argomento non molto conosciuto. Allarmismi a parte, è quasi certo che l’attuazione di questo procedimento non potrà avvenire in territorio italiano a causa della mancanza di rocce adeguate.

Gli ambientalisti tirano un sospiro di sollievo, ma il caso fracking resta aperto. Il sì di Letta sembra rivolto ad un futuro energetico europeo a base di shale gas a cui l’Italia, da buona vicina, potrà attingere a un costo più moderato rispetto all’importazione dagli Usa.

Le riserve di questo tipo in Europa ci sono: in Polonia si sta provando a sfruttarle da almeno tre anni, mentre in Francia il progetto è stato archiviato e il fracking proibito per i prossimi cinque anni, a causa dei rischi ambientali connessi, nonostante il sottosuolo francese ospiti riserve di shale gas tra le più abbondanti in Europa.

Dal punto di vista economico, la produzione di gas da argille in Europa non potrà risolvere la storica dipendenza del nostro Bel Paese dalle riserve energetiche altrui, ma potrebbe ridurre i costi di importazione di idrocarburi.

Se si guarda oltreoceano, l’economia americana è da anni convinta della scelta di questa procedura di estrazione e trae profitto dalla produzione di shale gas tramite fracking; oggi circa il 90% dei pozzi di gas naturale negli Stati Uniti usa la fratturazione idraulica per produrre a un prezzo competitivo.

Dal 2007, gli Usa stanno vivendo una rivoluzione energetica grazie a questa tecnica, che ha consentito l’abbassamento del prezzo degli idrocarburi grazie all’aumento di riserve di gas estraibile. Anche l’uso del carbone ha subito una riduzione, che è andata di pari passo con una diminuzione del prezzo che ne ha favorito l’esportazione sugli altri mercati.

Ma di cosa consta questa procedura e perché spaventa tanto scienziati e ambientalisti? Il fracking, noto anche come detto fratturazione idraulica, è una tecnica di perforazione per estrarre idrocarburi che sfrutta l’iniezione di liquidi ad alte pressioni per provocare profonde fratture, al di sopra delle quali si installano i tradizionali pozzi di trivellazione.

Si tratta di un processo che favorisce la fuoriuscita di petrolio e metano, ma è usato soprattutto per ottenere “tight gas” e “shale gas”; entrambi giacimenti di gas costituiti da rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla (quando quest’ultima è prevalente il gas è detto shale).

Recentemente, la produzione di shale gas negli Stati Uniti, Paese pioniere di questa tecnica di sfruttamento del suolo, ha aperto un dibattito circa gli effetti del fracking sull’ambiente e, sulla base dell’esperienza americana, sono state evidenziate diverse problematiche. Analisi approfondite sono state svolte sugli aspetti economici ed ambientali di questo tipo di produzione.

In particolare sono stati riscontrati rischi ambientali per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse idriche; la maggior parte dell’acqua introdotta all’interno delle fratture non può infatti essere recuperata, tanto che alcuni report indicano l’utilizzo di fluidi alternativi e consigliano misure di gestione più accurate per limitare l’impatto sulla disponibilità di acqua potabile nelle aree geografiche interessate.

Un altro importante fattore di rischio riguarda la contaminazione delle falde acquifere: nonostante i pozzi di estrazione si trovino infatti a profondità maggiori di quelle delle falde, un loro scarso isolamento può causare la contaminazione dell’acqua da parte delle sostanze chimiche (metalli pesanti e isotopi radioattivi utilizzati come traccianti, spesso non denunciati dalle compagnie petrolifere) impiegate come additivi ai fluidi adoperati per l’estrazione di gas. Seppure la percentuale di fluido addizionato sia molto minore rispetto a quella di liquido usata per provocare le fratture, parte di queste sostanze risalirà in superficie sotto forma di acque di reflusso e parte rimarrà nel sottosuolo, assieme ai prodotti derivati dalle trasformazioni chimiche avvenute durante l’operazione di pompaggio.

Per una volta dunque, la mancanza di riserve di gas naturale potrebbe garantire una sicurezza alla tutela del territorio nostrano, pur non escludendo la presenza nelle case italiane di gas proveniente da pozzi europei che adoperano questa tecnica.

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