[highlight]La società spagnola compra Telecom, l’azienda di telefonia italiana da molti anni sull’orlo del baratro[/highlight]
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Nella notte del 23 Settembre Telecom Italia, pilastro della nostra telefonia, è finita sotto il controllo dell’azienda iberica Telefonica, che ha raggiunto un accordo con Mediobanca, Generali e Intesa SanPaolo, azionari della holding Telco, in possesso del 25% circa di Telecom.
Le trattative sono avvenute a Piazzetta Muccia, la sede milanese di Mediobanca, e continueranno sabato 28 settembre, quando scadranno i termini del patto che tiene insieme i quattro soci di Telco. Secondo indiscrezioni, mentre i soci italiani sono intenzionati ad abbandonare la partita vendendo tutte le loro quote a Telefonica, quest’ultima, che controlla già il 46% dell’azienda, vuole comprare azioni al fine di ottenere progressivamente il 100% del controllo per gennaio 2014.
Ciò che desta scalpore è il fatto che a comprare la Telecom, attualmente appesantita da 40 miliardi di debiti, è una società più debole, che di suo ne ha già 60 miliardi. Il premier Letta, pur ammettendo che gli spazi di manovra sono limitati in quanto si tratta di una società privata, ha garantito che:
[quote]Il governo vigilerà sul caso perché ci sia massima attenzione ai profili occupazionali[/quote]
Sperando che il proprietario del gestore spagnolo si occupi bene di un tassello fondamentale della modernizzazione italiana.
Cesar Alierta è solamente l’ultimo detentore di un’azienda che di padroni ne ha avuti tanti e basta ripercorrere brevemente la travagliata storia di Telecom per rendersene conto. La Stipel (questo il nome originario) viene fondata nel 1925 per diventare all’alba degli anni ’60 Sip e soltanto nel 1994, con la fusione di quattro società statali operative nella telecomunicazione, Telecom Italia.
Fino a quando resta pubblica vive un percorso abbastanza tranquillo; i guai cominciano con la privatizzazione, avvenuta nel 1997. La presidenza di Guido Rossi e l’intervento del cosiddetto “nocciolo duro” di investitori italiani (tra i quali Agnelli) si rivelano avventure fallimentari, che fanno da preludio all’indebitamento cominciato all’inizio del nuovo millennio con la scesa in campo dei “capitani coraggiosi” (Roberto Colaninno e altri 180 imprenditori del nord). Ed ecco che la vicenda economica si intreccia con la politica: il governo di Massimo D’Alema sostiene l’iniziativa imprenditoriale, assicurando un finanziamento pubblico e bocciando l’ipotesi, formulata da Franco Barnabè, di alleanza con la Deutsche Telekom.
Ma il tentativo di risanare la situazione costa ai “capitani” ben 61 miliardi di lire, e i debiti contratti vengono puntualmente addossati all’azienda, non permettendole mai più di avere vita facile. Nell’estate del 2001 subentrano al vertice Pirelli e la famiglia Benetton che, nonostante l’ingente piano di dismissioni, fanno esplodere il debito, salito a 44 miliardi di euro. Il governo da una parte non fornisce alcun appoggio per la riorganizzazione del gruppo, dall’altra si oppone alla vendita dell’azienda ai molti stranieri interessati, fra i quali At&t e America Moviles, ritenendo Telecom Italia un asset strategico dello Stato e una rete telefonica attraverso la quale passano rilevanti informazioni economiche e militari. Alla luce di ciò, l’ultima speranza di scalata è guidata, sotto la presidenza di Barnabè, da quegli stessi azionisti italiani che pochi giorni fa hanno gettato definitivamente la spugna, cedendo il controllo a Telefonica.
Questo excursus permette di enucleare i motivi fondamentali che hanno caratterizzato l’ascesa, o meglio la discesa di un gruppo apparentemente saldo, effettivamente altalenante, quale quello di Telecom: da pubblico a privato, da italiano a straniero, soggetto a numerose cessioni e svariati padroni.
Con un’unica costante: sanare un debito colossale. Riuscirà a raggiungere l’obiettivo di sempre la società spagnola, con i suoi 60 miliardi di debiti? Non ci resta che confidare nelle mani straniere anche se, come ha affermato Guido Crosetto nella puntata del 24 Settembre di Matrix, i politici italiani avrebbero forse potuto prendere in mano le redini della situazione. Eppure vendere piuttosto che produrre sembra la scelta più facile da compiere, ma fino a che punto potrà risultare vantaggiosa per il nostro Paese?
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