[highlight]Emigrazione come nel dopoguerra, nessuna capacità di attrarre investimenti e laureati in fuga. Il Mezzogiorno rischia la desertificazione economica.[/highlight]
Il mezzogiorno d’Italia, un deserto industriale con disoccupazione alle stelle e giovani cervelli in fuga. È il quadro desolante che emerge dall’ultima analisi della Svimez.
I dati sono inquietanti, come ha ammesso anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Ad esempio, nel primo trimestre 2013, le persone che al Meridione hanno un lavoro sono meno di 6 milioni, 166mila in meno rispetto al 2012. Non accadeva dal 1977.
Il tasso di occupazione nel Sud a fine anno scorso era del 43,8% a fronte di un 63,8% nel Centro-Nord del Paese. In Campania, in particolare, ha un impiego solo il 40% della popolazione in età da lavoro. Mentre il tasso di disoccupazione registrato ufficialmente è stato del 17%, qui al Mezzogiorno, portando l’area ai livelli raggiunti agli inizi degli anni ‘90. E il 60% di questi disoccupati si trova in questa situazione da più di un anno.
Va male soprattutto per i giovani. Tra gli under 35, la disoccupazione infatti tocca quota 28,5%.
L’alternativa si chiama emigrazione: non è un caso se le statistiche dicono che negli ultimi 20 anni sono emigrati dal Sud circa 2,7 milioni di persone. Nel solo 2011 si sono trasferiti al Centro-Nord circa 114 mila abitanti meridionali, il 64% dei quali aveva una laurea o un diploma.
I laureati diretti al Centro-Nord sono nel 2011 il 25% del totale, più che raddoppiati in dieci anni.
Prospettive poche: la Svimez dice anche che il Mezzogiorno d’Italia rischia di non agganciare la ripresa nel 2014, con un Pil che resta inchiodato allo 0,1% a fronte di un +0,7% nazionale e un +0,9% del Centro-Nord. È dal 2007 che il tasso di crescita del Pil meridionale risulta negativo, e continuano a calare i consumi delle famiglie (sprofondati del 9,3%, più del doppio rispetto a quelli del Centro-Nord, -3,5%) e gli investimenti (-47% per l’industria dal 2007 al 2012).
A incidere anche l’aumento della pressione fiscale, aumentata più che al Nord soprattutto per effetto dei piani di rientro sanitario, combinato con la diminuita spesa pubblica sia corrente (per i servizi) sia in conto capitale (per gli investimenti).