[highlight]La storia di Óscar Sánchez, perché “non si può giocare così con la vita delle persone”[/highlight]
Dopo la storia di Anna Pagliolonga (leggi qui), Contrordine si concentra ancora su un caso di furto di identità. Quello dello spagnolo Óscar Sánchez, al quale è stato tolto tutto con un soffio.
Un uomo semplice e molto ingenuo, che lavora presso un autolavaggio e non ha mai varcato i confini della Spagna.
D’un tratto, una notte, viene svegliato di soprassalto da qualcuno che bussa alla sua porta: è la polizia. Senza dare troppe spiegazioni, gli agenti lo conducono alla Corte Nazionale di Madrid. Quella notte firma i documenti che gli vengono sottoposti, senza però capire davvero cosa stia succedendo. Poco dopo è in prigione, e il giorno seguente è nel carcere di Soto del Real, dove resta per un mese prima che lo trasferiscano in Italia. Senza ancora capire il perché.
Giunto a Roma, i Carabinieri lo scortano al Tribunale, e così può partire il suo processo. Ben presto, però, ci si rende conto di un problema: l’imputato non conosce l’italiano e non capisce quello che gli viene detto. Così, gli viene affiancato un mediatore. Quest’ultimo gli spiega finalmente la realtà dei fatti, ma Óscar in quel momento non sa che dire, non è capace di difendersi, perché non riesce ancora a comprendere cosa stia accadendo e di cosa lo accusino.
Ignaro di tutto, viene condannato a 14 anni di carcere, incolpato di essere a capo di un gruppo di pericolosi narcotrafficanti.
Viene trasferito il 18 maggio 2011 nel carcere napoletano di Poggioreale e lì ha inizio l’inferno per Óscar.
È proprio Óscar a raccontare l’incubo che ha vissuto in quella cella, piena di gangster incalliti e spacciatori di droga nei ranghi della camorra: in un’intervista, rilasciata dopo il rientro in patria – che noi traduciamo dallo spagnolo – narra la vicenda con gli occhi tristi e un sorriso infelice, perché nonostante sia trascorso del tempo la ferita resta:
[quote]Il peggio è cominciato quando sono giunto a Napoli. Eravamo nove detenuti in una cella. In principio solo discussioni, scherzi, battutine, ma un giorno arriva uno, che mi costringe a sedere e dopo aver fumato mi spegne la sigaretta sul braccio. Poi un altro giorno arriva un uomo nuovo, il quale mi ha colpito la testa sulla porta del gabinetto. Un giorno mi hanno chiesto quale squadra mi piacesse: ho detto la Juventus o l’Inter. Mi hanno detto che doveva essere il Napoli e mi hanno segnato una N nel braccio con una forchetta e poi mi hanno buttato il sale sulla ferita. Una volta mi hanno tirato giù i pantaloni e hanno spruzzato uno spray tra le gambe: che bruciore. Mi hanno anche afferrato e messo un bastone nel retto: incredibile, incredibile. Mi chiamavano monnezza, mongoloide[/quote]
Le indagini che hanno portato all’arresto si rivelano poco approfondite. In particolare, tutto si basa solo su una constatazione fin troppo semplice: Óscar Sánchez è un nome che corrisponde a una vera persona.
Scende allora in campo una squadra di reporter del giornale El Periodico, formata da Antonio Baquero, dall’italiano Michele Catanzaro e da Angela Biesot, che prende l’iniziativa di scovare le prove dell’innocenza di Oscar per poterlo così scagionare.
Questo intenso lavoro riesce a ricostruire l’origine dei fatti: Óscar, dietro compenso, ha prestato la sua carta d’identità a una ragazza dell’Europa Orientale, sua collega nell’autolavaggio Montgat, che ne aveva bisogno per far venire un suo parente in Spagna. Óscar Sánchez afferma:
[quote]Mi ha dato 700 euro: denaro contante, ma l’ho fatto per amicizia. Solo quello e basta[/quote]
Un atto illegale, ma che per Óscar ha conseguenze inimmaginabili: l’uomo non può sapere, infatti, che il suo documento giungerà nelle mani sbagliate, nelle mani dei narcotrafficanti.
Ma prima che lo spagnolo esca dalla galera e racconti tali vicende dovranno trascorrere 626 lunghi e dolorosi giorni, quando difatti ormai il peggio già era stato fatto.
Il caso di Óscar Sánchez ha fatto breccia nei cuori di tutti gli spagnoli, che hanno tentato il tutto per tutto per farlo ritornare nel suo Paese, a casa sua, dalla sua famiglia. Ma la strada per tornare ad avere di nuovo una vita normale è ancora lunga. Perché, come dice il pover’uomo
[quote]Non si può giocare così con la vita delle persone[/quote]