[highlight]Dopo le manifestazioni di domenica e lunedì, a un anno dalla nomina di Morsi, i militari minacciano il golpe[/highlight]
Dopo le grandi proteste di domenica in diverse città dell’Egitto, specie al Cairo, che hanno visto milioni di persone scendere in piazza, diversi scontri, cinque persone morte e circa 400 rimaste ferite. Un attacco alla stabilità del governo è venuto dall’esercito che, con un comunicato letto in tv dal generale Abdel Fattah al Siri, ha minacciato di intervenire se entro quarantott’ore il governo non deciderà di trovare un accordo con gli oppositori. Una vera e propria sfiducia quindi, venuta dal capo delle forze armate e ministro della difesa, che sembra quasi una dichiarazione di golpe dei militari che nell’ultimo anno si sono visti ridurre il potere dopo gli anni del regime di Mubarak. Nelle ultime ore però l’esercito ha ritrattato le dichiarazioni specificando che l’ ultimatum è volto a spingere il governo a trovare un accordo con gli oppositori, senza alcuna minaccia alla stabilità delle istituzioni. Intanto la situazione risulta molto critica, cinque ministri del governo Morsi si sono dimessi.
Tra domenica e lunedì, alcune sedi dei Fratelli Musulmani sono state prese d’assalto e incendiate. La protesta è guidata dal movimento Tamarod, capace in pochi mesi di raccogliere l’adesione di milioni di egiziani, quasi esclusivamente attraverso i social network. Questo fenomeno, perlopiù spontaneo, che ha colto di sorpresa tanto l’establishment islamista quanto gli stessi partiti di opposizione, riunisce esponenti liberali oltre che alcuni rappresentanti della componente islamista più moderata ed ha accolto con entusiasmo l’appoggio dell’esercito chiedendo con più vigore che Morsi lasci il potere e che vengano indette nuove elezioni.
Tutto questo a un anno dalle prime elezioni democratiche d’Egitto, che eleggevano il primo Presidente e che sembravano dare inizio a una nuova era egiziana. Invece le piazze sono ancora piene e la protesta fa ancora la voce grossa. Le motivazioni sono molteplici ma essenzialmente di natura economica. Gli oppositori contestano al presidente di non essere stato capace di risollevare l’economia dalla profonda crisi e di aver portato solo autoritarismo e incapacità al governo. Il paese è fermo, in profonda crisi, nonostante tutte le promesse fatte al momento della caduta di Mubarak e dopo la vittoria delle elezioni. La disoccupazione continua ad aumentare, si riduce il turismo, si registra una continua fuga dei capitali all’estero e la caduta della moneta è frenata solo dai prestiti provenienti dal Qatar e dalla Turchia. La crisi si riverbera ancor di più sulla popolazione che ha dovuto fare i conti con l’ingente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Aumentano le persone sotto il limite di povertà, aumentano i black-out energetici ed è sempre maggiore la scarsità di combustibile.
Questo ha portato per l’ennesima volta la protesta in Piazza Tahrir al culmine e il fattore preoccupante è che nessun personaggio carismatico sembra poterla cavalcare. Gli USA, nelle dichiarazioni di Obama dalla Tanzania, invitano le parti alla moderazione ma in questo momento sembra molto difficile senza un deciso intervento diplomatico della comunità internazionale. In un paese sempre diviso tra sostenitori e oppositori facilmente soggiogabili, l’Egitto sembra ormai una polveriera pronta ad esplodere.