[highlight]Mirrors: Maschere e travestimenti calcano il tetro della vita[/highlight]
Antonio Maria Fantetti è un giovane ingegnere con la passione per la fotografia. I suoi sono veri e propri scatti d’autore, istantanee da cui traspare naturalezza, spontaneità, gusto del dettaglio e particolare attenzione per la luce, le tonalità, le inquadrature. Le sue fotografie raccontano il grande teatro della quotidianità: che siano ritratti, scatti paesaggistici, pose spontanee o foto-racconti della simpaticissima formichina Bina, ognuno racchiude tanta cura, emozione e spinge a riflettere. Ognuno ha una storia da raccontare: se si trova il modo giusto e, soprattutto, si ha bene in mente il perché del proprio lavoro, il gioco è fatto, il fotografo non solo è credibile ma emoziona e trasmette con un’immagine temi, valori e sentimenti che ha cercato di catturare.
Per la sua prima personale mostra fotografica, intitolata MIRRORS, Fantetti ha scelto un tema delicato e sempre attuale: propone ritratti scattati a una festa di omosessuali. Artoteca Vallisa, a Bari, dal 15 al 24 giugno, ospita il suo MIRRORS: l’evento è curato da Sabrina Delliturri.
Abbiamo incontrato Fantetti per conoscerlo meglio e farci raccontare come è nata questa mostra.
-Come nasce l’idea di dedicare una mostra al tema dell’omosessualità?
Solitamente sono una persona alla ricerca di intuizioni, trovate, che poi analizzate diventano vere e proprie idee. Cerco input, soprattutto, dalla realtà che vivo quotidianamente, dalla vita di amici e colleghi, dal territorio circostante, dalle cose che non vanno, ma anche dalle cose che vanno bene (non amo particolarmente raccontare solo denunce sociali)! Nel caso di MIRRORS, però, non è andata proprio così. Mi è successo praticamente quello che accadde, precisamente 50 anni fa, a Lisetta Carmi. Lisetta è una fotografa che vive ora a Cisternino e che ho incontrato a Bari durante un convegno. Lei venne invitata a una festa di capodanno, l’evento era riservato solo ai travestiti. Completamente assorta da questo clima, Lisetta fece un bellissimo reportage della serata, andò a casa e la stessa notte stampò tutte le foto che aveva fatto. Il giorno dopo cercò tutti gli invitati della festa e regalò a ognuno di loro una foto: da quel momento Lisetta cominciò a vivere con loro e, per due anni, denunciò fotograficamente una condizione che allora era chiamata “clandestina”.
Io ho vissuto la stessa identica cosa cinquanta anni dopo. Sono stato invitato a una festa e ho cominciato a fare questi ritratti seriali alle persone invitate. Alla fine della serata sono tornato a casa e, preso dalla curiosità di quest’ambiente, ho scaricato e modificato nella nottata tutti i ritratti che avevo fatto. Il giorno dopo sono andato in tipografia, ho stampato i ritratti e ho incontrato tutti i ragazzi per consegnarglieli e, allo stesso tempo, conoscerli meglio.
-Cosa speri di comunicare?
A differenza del lavoro di Lisetta Carmi, il tema del mio lavoro non è di sensibilizzazione a una realtà nuova quanto, piuttosto, di riflessione e di ripiegamento su qualcosa di già trattato, ma decontestualizzato nel passaggio da denuncia a osannazione. Voglio lanciare una domanda all’osservatore: dopo cinquanta anni questa condizione è cambiata?
– Perché la scelta di intitolare la mostra “Mirrors”?
Riflettere, dal latino re-flectere, significa “piegare di nuovo”: è un verbo che vive un’azione, eppure, paradossalmente, la sua condizione è passiva, poiché, in maniera analoga a ciò che avviene all’immagine allo specchio, si subisce un ripiegamento. L’obiettivo cercato diventa, quindi, avere uno specchio, intimo e insieme tanto costruito quanto tangibile e vero, di una realtà quotidiana. Mirrors rappresenta proprio la sintesi del mio lavoro. In fondo, il modo di rapportarsi e “tollerare” l’omosessualità è lo specchio reale della nostra generazione.
– Di professione sei un ingegnere: come nasce la tua passione per la fotografia?
In principio fu l’astronomia! Mio padre, ora in pensione, è stato insegnante di navigazione e di astronomia, e, per me, che ero ancora un bambino, il primo colpo di fulmine è stato immortalare gli astri con macchina fotografica e telescopio, studiando i tempi di esposizione per ogni astro, costellazione, nebulosa. Poi sono cresciuto e, vista la mia timidezza, ho sempre usato la fotocamera come se fosse il prolungamento del mio occhio, registravo immagini e le riguardavo a distanza di tempo, come per controllare quanto fossimo cambiati da quel momento. C’è stato poi un periodo di crescita in funzione della sola tecnica, andavo alla ricerca della foto “domenicale”, della bella immagine, ma, in realtà, non mi muovevo in nessuna direzione, cercavo solo di capire e di assimilare tecniche nuove. Qualcosa è cambiato quando ho fatto un viaggio per lavoro a Skopje, in Macedonia: ho cominciato a capire che la fotografia non è solo quella della “domenica”, ma permette di far vedere anche i giorni lavorativi. Ho smesso di “scattare” e ho iniziato a impugnare la fotocamera solo quando ho qualcosa da raccontare.
-Cosa rappresenta la fotografia per te oggi?
Oggi vedo la fotografia come un vero e proprio linguaggio artistico, legittimo, come un mezzo attraverso il quale riesco ad approfondire temi che non conoscevo affatto. Penso che il mondo non sia fatto di quello che vediamo, ma di quello che facciamo. I fotografi che ignorano lo stato delle cose riducono la fotografia alla loro capacità di registrare la realtà. Al contrario di quello che si fa quando si scrive o si dipinge, mentre si fotografa, ci si trova per forza a confrontarsi con la realtà. È complicato ma necessario, mantenere un equilibrio tra la creazione di una situazione da vivere e lo sviluppo di una narrazione per condividere la propria prospettiva. In questo processo la fotografia diventa attiva, non è più semplice mezzo passivo, essa snatura la realtà, la supera. E questo mi aiuta molto, non mi fa essere superficiale sulle cose, mi fa fermare, guardare, e a volte vedere.
-A quali maestri della fotografia ti ispiri?
Evans, Bresson, Frank, Arbus, Newton e Giacomelli mi hanno cambiato la vita e sono tutti generi diversi. Adoro lo stile di Martin Parr, ho un suo catalogo a casa, che mi ha regalato una cara amica e che sfoglio settimanalmente perché mi mette terribilmente di buon umore. Se, invece, prendo “Kodachrome” di Luigi Ghirri, ritorno serio, silenzioso e ci sono quei cinque minuti in cui mi viene voglia di appendere la fotocamera al chiodo. Quando poi vedo il libro “Street Photographer” di Vivian Mayer, mi ritrovo a percepire la fotografia come pura e sola passione. Per me lei è l’esempio assoluto di amore per la fotografia, visto che ha tenuto per sé i suoi scatti in tanti anni senza avere la pretesa o forse il coraggio di mostrarli.
La mostra MIRRORS sarà visitabile dal 15 al 24 giugno 2013.
Orari: dal lunedì al venerdì 9:00-12:00 – 16:00-21:00,
sabato e domenica 9:00-12:00 – 17:00-23:00
Artoteca Vallisa, Strada Vallisa 11 – BARI (ingresso mostra Mirrors)
Piazza del Ferrarese 4 – BARI
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