[highlight]Anche Rabelais, Hugo, Baudelaire… L’effetto delle droghe (soprattutto della cannabis) sui grandi geni della letteratura.[/highlight]
Un recente studio pubblicato dal professore universitario Francis Thackeray ha dimostrato, dalle analisi effettuate, che nelle pipe di William Shakespeare ci sono tracce di cannabis. Una notizia che colpisce, ma soltanto in virtù della strumentalizzazione e del moralismo estremo che fa la società contemporanea di questa sostanza e di altre che non in tutto l’Occidente sono viste di buon occhio (soprattutto per le direttive date dalle classi dirigenti di alcuni paesi).
Tuttavia la cannabis (così come altre droghe ritenute “leggere”) è invisa ai cosiddetti potenti da un bel po’ di secoli tanto che nel 1484 una bolla emanata dal papa Innocenzo VII proibiva ai fedeli l’uso di sostanze del genere che erano coltivate soprattutto nelle regioni tedesche, per motivi che – alla vigilia della disgregazione del mondo cristiano – sono anche abbastanza semplici da immaginare.
Presidenti USA e William Shakespeare
Morale cattolica e politica a parte, è risaputo che già secoli prima della venuta di Cristo gli uomini facevano largo uso di cannabis e di altre droghe che oggi sono proibite in gran parte dei paesi europei, ma non solo. E non è un caso che, ad esempio, proprio l’uso della cannabis fosse molto più frequente nelle zone dell’Africa prima dell’arrivo – guarda caso – dei coloni europei. Come non può essere un caso che nel Nuovo Mondo – in quegli Stati Uniti dove oggi l’uso ricreativo della cannabis è consentito in quasi tutti gli stati (dove non lo è, la sostanza è stata comunque depenalizzata dopo il proibizionismo iniziato nel 1937) – non può essere un caso, si diceva, che nel XVIII secolo la nascente potenza statunitense che aveva già fatto tremare i polsi alla madrepatria inglese contasse oltre 8000 piantagioni di cannabis, tra cui spiccavano quelle dei presidenti George Washington e Thomas Jefferson.
Tornando ai capolavori di teatro e letteratura, non fa poi tanto effetto pensare che Shakespeare abbia scritto opere come Sogno di una notte di mezza estate o La tempesta sotto l’effetto della cannabis. Come non sembra assurdo che i soliloqui esistenziali di Amleto o i tormenti interiori di Macbeth siano stati partoriti in momenti di, come dire, leggerezza cerebrale. Infondo la cannabis, per gli elisabettiani, era una valida e comune alternativa al tabacco, così come la cocaina (ma è da escludere che il drammaturgo di Stratford-upon-Avon ne abbia fatto uso).
Il Pantagruelione di Rabelais e i “poeti maledetti”
Di poco precedente all’opera di Shakespeare, è quella – senza dubbio molto più controversa – dell’umanista francese François Rabelais che, nel 1532, dedicava addirittura quattro capitolo della sua opera più nota, il Pantragruel, ad una sacra pianta. Vale la pena riproporre ciò che scrisse Rabelais circa sei secoli fa sulle proprietà di questo Pantagruelione e su quanto fosse inviso ai potenti:
L’erba Pantagruelione ha radice piccola, duretta, rotondetta, terminante a punta ottusa, bianca con pochi filamenti e non pesca in terra più d’un cubito… Un tempo i Greci ne facevano certe specie di fricassate, torte e frittelle da mangiar per ghiottoneria dopo cena e per render più gustoso il vino, anche se essa non è per questo meno grave alla digestione e può ferir, con il suo eccessivo calore, il cervello che riempe d’un colpo di vapori. E come in parecchie piante sono due sessi, maschio e femmina, ciò che vediamo nei lauri, nelle palme, quercie, elci, asfodeli, mandragore, felci, agarici, aristolóchie, cipressi, terebinti, puleggi, peonie, così in quest’erba v’è il maschio che non porta fiore alcuno, ma abbonda in semenza, e la femmina che pullula di piccoli fiori biancastri, e non porta semenza feconda e, come avviene dell’altre piante simili, ha la foglia più larga e meno dura del maschio e non cresce a pari altezza. Si semina questo Pantagruelione al primo giungere delle rondinelle, e si leva di terra quando cominciano ad arrochire le cicale... Senza il Pantagruelione le cucine sarebbero infami, le tavole detestabili benché coperte d’ogni vivanda più squisita; i letti sarebbero senza delizie benché carichi d’oro, argento, ambra, avorio e porfirio; i mugnai non porterebbero grano al mulino, non ne riporterebbero farina […] Molti potenti abbiam visto perder la vita chiaro e tondo per quel tale uso del Pantagruelione; come ad esempio: Filli, regina di Tracia; Bonoso imperatore di Roma; Amata, la consorte del re Latino; Ifi, Autolia, Licambo, Aracne, Fedra, Leda, Acheo re di Lidia e altri; i quali furono disturbati solo da ciò, che pur non essendo d’alcuna malattia malati, fu loro chiuso il condotto dal quale escono le buone risposte ed entrano i buoni bocconi, più brutalmente che non avrebbe fatto la mala angina e la mortale squinanzia. Ne abbiamo udito altri, nell’istante che Atropo recideva loro il filo della vita, dolersi e lamentarsi che Pantagruele li afferasse alla gola.
Una prima bozza di Fini-Giovanardi ante-litteram, insomma. Ma, restando in Francia, qualche secolo più tardi, nell’Ottocento, c’è chi addirittura va oltre i confini della cannabis. Allora, nell’Hotel de Lauzun di Parigi, si riunivano alcuni dei più grandi geni dell’epoca: Victor Hugo, Alexandre Dumas, Charles Baudelaire, Honoré de Balzac. Grandi nomi che facevano parte del Club des Hashischins. Più devoti all’hashish che alla cannabis – come si evince dal nome del gruppo – questi artisti si ispirarono ad uno studio dello psichiatra Jacques-Joseph Moreau che sperimentò su di sé gli effetti della droga descrivendone poi i particolari.
E’ da tale esperienza che nacque uno dei capolavori di Baudelaire, il più maledetto degli “artisti maledetti”, noto anche per la sua vita da bohémien, sempre allo sbando, dedito agli eccessi e spinto da una voglia incontrollabile di scagliarsi contro il conformismo vigente del secolo. Il poema dell’hashish (qui è possibile leggere l’introduzione di Enrico Malizia per l’edizione della Newton Compton), che fa parte del saggio I paradisi artificiali, è solo uno degli esempi di quanto questa sostanza, come tante altre, fossero prese seriamente in considerazione da uomini le cui opere si studiano ancora oggi nelle scuole e nelle università.
King, Morante e… Alice nel paese di chissà cosa
Ma la storia tra letteratura e cannabis è molto lunga, tanto da arrivare fino ai giorni nostri, col maggior rappresentante del romanzo horror, Stephen King, che è passato dall’abuso di alcool alla tossicodipendenza scrivendo, tra anni Settanta e Ottanta, alcune delle sue opere più importanti, quelle che lo hanno reso famoso. E’ lui stesso a confessare alla rivista Rolling Stone:
[quote]Sono stato un consumatore accanito di cocaina dal 1978 al 1986, qualcosa del genere. Scrivevo sotto effetto della droga, dovevo. Voglio dire, con le sbornie era diverso, potevo aspettare, senza bere o altro. Ma la coca la usavo in ogni momento[/quote]
Un caso estremo, quello del Re dell’Horror, che supera di molto le esperienze dei suoi illustri predecessori e si accosta maggiormente, ad esempio, alle dipendenze croniche (da alcool) di Edgar Allan Poe e Ernest Hemingway.
Un caso più vicino a quello trattato, e anche più sentito da noi italiani, è quello di Elsa Morante. La scrittrice italiana, come raccontato anche da Alberto Moravia, fece uso di alcune sostanze a partire dagli anni Sessanta tanto che alcuni titoli delle sue poesie hanno le iniziali che formano la sigla LSD, come La sera domenicale, il cui titolo sul manoscritto originale appare proprio con le iniziali scritte in rosso.
Tuttavia, impossibile fare a meno di citarlo, il vademecum delle “droghe letterarie” è tutto nel leggendario capolavoro di Lewis Carroll, autore de Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, diventato celebre anche grazie al cartone della Disney del 1951, alle varie trasposizioni cinematografiche che continuano a susseguirsi ancora oggi e agli infiniti giochi matematici e linguistici nascosti da Carroll all’interno dell’opera, che saranno oggetto di studio e teorie varie ancora per molti decenni. Giochi che sono stati trattati e ritrattati in tutte le salse, anche in maniera divertente. Il modo in cui quelli di Dailybest hanno spiegato le droghe che la Disney ha nascosto nella sua versione di Alice è divertente ed eloquente al tempo stesso. A dimostrazione che i tabù, che si tratti di cannabis o droghe anche più pesanti, vanno affrontati e – se è il caso – superati, in qualsiasi ambito sia possibile farlo.