[highlight]Sporcizia, incuria e disagi. Viaggio nel degrado dell’Ospedale Cardarelli di Napoli. Il resoconto della nostra inviata[/highlight]
Un’emergenza mi porta a vacare le porte dell’azienda sanitaria Antonio Cardarelli, struttura di riferimento per l’intero meridione e polo ospedaliero di rilievo del sistema sanitario nazionale.
All’ingresso, dei piccioni passeggiano con i resti dei veloci spuntini consumati dai parenti dei degenti durante le non piacevoli attese. Un cartello all’ingresso indica gli orari di visita, sono leggermente in anticipo e spero nell’umana comprensione e tolleranza del personale di guardia. Sbagliato. Primo, perché è troppo facile criticare l’assenza di regole e poi all’occasione cercare di aggirarle; secondo, perché nessuno mi ferma né mi chiede dove sono diretta. So dove andare e procedo indisturbata .
Lo stato fatiscente della struttura è lampante, e le condizioni igienico-sanitarie non sono per niente adeguate al contesto in cui ci troviamo. Vetri rotti, sediolini divelti, pavimenti luridi.
Per onore di cronaca, va detto che non tutti i piani versano nelle stesse condizioni di degrado, ma sfortuna vuole che la mia destinazione sia “medicina d’urgenza”, reparto contenitore che accoglie i malati in modo (in teoria) transitorio, in attesa che gli esami o la disponibilità ne definiscano la destinazione specifica e appropriata.
Lo scenario è degno di un girone del purgatorio, una moltitudine di anime in pena. Non ci sono posti letto, non a sufficienza, e allora ogni spazio è buono per posizionare una barella o un letto di fortuna. Ci sono anziani, donne, uomini in gran parte seminudi, molti con il pannolone, e poi ci sono flebo, respiratori per l’ossigeno, lamenti, urla, pianti, ma anche risate inopportune e soprattutto tanta confusione.
La dignità umana viene privata, prima ancora che dei diritti sanciti dalla “Carta dei diritti del malato”, dell’umana pietas e del buon senso.
Un ospedale non può, per sua naturale definizione, essere un luogo ameno, ma quello che è sotto gli occhi di tutti è indecente. I più fortunati occupano uno spazio negli stanzoni dove almeno si cerca, all’apparenza, di radunare casi simili per gravità e similitudine di patologia, ma tutto è affidato alla buona volontà dei singoli, alla naturale collaborazione che nasce dal condividere un momento di seria difficoltà.
Il mestiere dei medici e dei paramedici è decisamente molto duro, ma si suppone che sia una libera scelta, e in ogni caso deve essere condotto garantendo dei margini di efficienza e dedizione necessari ad affrontare il dolore umano.
Fatte salve le sempre presenti eccezioni, all’interno della struttura regna il caos: c’è il paramedico che, con toni da comizio, informa che i colleghi dell’azienda ospedaliera Monaldi (attualmente A.O.R.N. Azienda Ospedaliera dei Colli “Monaldi – Cotugno – CTO, nda) guadagnano molto di più lavorando molto di meno; «75,00 euro all’ora solo per l’assistenza domiciliare». Il giorno successivo lo stesso paramedico si lamenterà dei pazienti che continuano a premere il pulsante per chiedere l’intervento del personale.
Ma le regole al Cardarelli ci sono e ogni tanto riaffiorano: l’orario di visita è terminato e i visitatori vengono invitati a uscire. In tutta onesta, abbiamo sforato di quasi mezz’ora e la guardia giurata, cerca di adempiere al suo dovere, ma dimentica di trovarsi in un luogo di dolore, alza i toni, finendo però con il polemizzare proprio con quelle povere persone a cui è stato riconosciuto un permesso speciale per stare vicine al parente in fase terminale.
Le scene sono tante, tristi e grottesche, in questa altalena di lassismo e cieca intransigenza. I degenti sono abbandonati a sé stessi, guai a non essere assistiti da un familiare o da una badante. L’insofferenza mostrata dal personale è semplicemente vergognosa.
La tristezza è tanta e l’amaro in bocca non riesce a toglierlo neanche il caffè preso al bar; è buono, servito con tanta cortesia e un sorriso che sembrava sincero.
Peccato che la barista con una mano mi porge la tazzina, con l’altra stringe una sigaretta.